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Portainnesti americani: miti da sfatare per partire col piede giusto

Portainnesti americani: miti da sfatare per partire col piede giusto

Come sono cambiati i vini col passaggio dalla vite franca di piede ai portainnesti americani? In un precedente articolo si è accennato alla mutazione della fisiologia della vite e delle caratteristiche dei vini a seguito dell’avvento del portainnesto americano, inevitabile quasi ovunque per contrastare la fillossera. Oggi approfondiamo questo aspetto, anche se dare una risposta definitiva è di fatto impossibile.

Più qualità media, meno punte d’eccellenza

Per Leonardo Valenti dell’Università di Milano, «l’avvento delle radici d’Oltreoceano ha condotto a una migliore stabilità produttiva, a una certa standardizzazione del comportamento delle piante e a una maggior produttività. In definitiva a una più marcata uniformità dei frutti, e quindi dei mosti e dei vini». Come dire: con le viti portainnestate si sono ridotte le punte di eccellenza, ma la qualità media dei vini è migliorata. Valenti sottolinea come, con l’arrivo del piede americano, le tecniche agronomiche si siano fatte più complesse, imponendo la nascita del vivaismo, i contadini non potendo più affidarsi a un’acritica selezione massale.

Le viti portainnestate sono più adattabili ai terreni

I vari portainnesti selezionati nel Novecento hanno reso la vite più adattabile ai diversi tipi di terreno, con qualche eccezione, come i suoli strettamente calcarei dove il piede franco offre maggior resistenza. Anche alcuni vitigni, sensibili per esempio alla clorosi ferrica (Montepulciano e Pinot nero), hanno beneficiato del piede made in Usa.

Con il piede americano la vite vive meno?

Un’annosa questione è relativa alla presunta maggior vulnerabilità della vite portainnestata e, quindi, alla sua minor longevità. Per Valenti si tratta di un falso problema: «Un tempo le viti a piede franco erano più longeve perché costituivano un patrimonio da preservare, anche per il loro maggior equilibrio vegeto-produttivo. Si sostituivano le fallanze e si ritardavano gli espianti. L’arrivo del portainnesto è coinciso con l’avvento di una viticoltura intensiva, basata su quantità e sfruttamento della vite, e sul ricorso alle radici americane più vigorose: è chiaro che se un organismo viene forzato a dare tutto e subito, la sua vita media non può che accorciarsi».

Qui resiste il piede franco

Importante il contributo del winemaker Roberto Cipresso, che, operando in aree dove esistono ancora viti a piede franco, come in Argentina, può offrire una visione “sul campo” della questione. «Parallelamente alle esperienze su vigneti di vitis vinifera innestata, ho avuto la fortuna di confrontarmi con appezzamenti a piede franco, in Italia e all’estero. Da noi sono situati in aree inadatte alla fillossera: suoli sabbiosi, terreni vulcanici a pH acido, altimetrie elevate». Qualche esempio? «Ricordo un’esperienza con vigneti di Falanghina e Piedirosso nei Campi Flegrei e con la Dorona nell’arcipelago veneziano; in Argentina ho lavorato con del Malbec franco di piede».

I portainnesti compromettono l’identità del vino?

Continua Cipresso: «È opinione diffusa che l’intermediazione del portainnesto interferisca nel rapporto vitigno-ambiente, filtrando l’espressione del terroir di origine. Pertanto le aziende dotate di vigne a piede franco fanno bene a comunicare tale peculiarità, rafforzando l’appeal dei loro vini». Ma precisa l’enologo: «Non credo tuttavia che si possa considerare i portainnesti come una fonte di riduzione dell’autenticità. La sua influenza gioca su vigoria ed equilibrio vegeto/produttivo: fattori regolabili con precise pratiche colturali. Inoltre il suo ruolo incide nei primi anni di vita della pianta, poi il legame vite-terroir emerge».

I problemi dei portainnesti americani

Quindi, ben venga il portainnesto? «Non del tutto. In passato si sono operate scelte miopi, come il massiccio ricorso – negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso – al Kober 5BB, dall’apparato radicale fittonante, e adatto quindi a suoli difficili come quelli argillosi. Ciò ha generato vigne prone a cercare acqua in profondità, che nelle annate piovose hanno offerto grappoli dagli acini rigonfi soggetti alla rottura delle bucce. Scelte spesso indotte dai vivaisti per aumentare la percentuale di attecchimento delle barbatelle. Per fortuna oggi si lavora con più oculatezza, preferendo al Kober il più equilibrato SO4. Oppure nei suoli fertili e umidi i meno vigorosi 420A e 3309».

Sei varietà coprono l’80% del mercato

Analizziamo ora le caratteristiche dei piedi americani più diffusi in Italia, grazie al supporto di Massimo Achilli, agronomo toscano che opera a stretto contatto con l’enologo Paolo Vagaggini.
In Italia sono ammessi 31 portainnesti, ma Achilli precisa che «secondo Agraria.org sei di questi costituiscono l’80% del mercato». Sono: berlandieri x riparia Kober 5BB (25%), berlandieri x rupestris 1103 Paulsen (20%, diffuso in Sicilia), berlandieri x riparia SO4 (14%), berlandieri x rupestris 140 Ruggeri (12%, anch’esso diffuso in Trinacria), berlandieri x rupestris 779 Paulsen e berlandieri x riparia 420A.

 

L’articolo prosegue su Civiltà del bere 5/2017. Per continuare a leggere acquista il numero sul nostro store (anche in digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 02/02/2018

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