La Malvasia istriana, autoctona senza confini
Un viaggio affascinante nella storia alla ricerca delle origini di questo vino che sembra essere nato in Grecia – Il progetto che ha portato un gruppo di appassionati a navigare lungo il litorale fino alla penisola ellenica per assaggiare le sue diverse espressioni – Simbolo dell’unione tra i popoli
Alcuni anni fa, nel titolo di un convegno sulla Malvasia (o Malvasie) sul cosiddetto “vigneto Friuli”, compariva un provocatorio punto di domanda: “autoctono dove?”.
Spieghiamo. Se la vite domestica – come sostengono gli scienziati – proviene dal Caucaso, o lì vicino, da dove 5 o 6.000 anni fa ha iniziato a spostarsi verso Occidente, dopo quanti secoli (o millenni) di presenza nel medesimo territorio una varietà si può considerare autoctona? Se guardiamo al significato letterale (“originario dello stesso luogo ove attualmente abitano”, Treccani) di autoctono nel mondo del vino c’è ben poco… Caucaso a parte. Se però affrontiamo il tema con un pizzico di buon senso (altrimenti tutti, uomini, animali e piante, saremmo autoctoni solo del punto dove avvenne il Big Bang… e stranieri in ogni altro luogo) allora autoctono può essere interpretato non come “originario dello stesso luogo”, ma “perfettamente inserito e adattato”.
In questa ottica, “autoctono dove?” ha, per la Malvasia, risposte multiple. Ma, prima di raccontare la storia della Malvasia istriana, è bene riportare ciò l’enologo Giovanni Dalmasso poneva come incipit al libro Malvasie pubblicato quasi 50 anni fa nella Rivista di viticoltura e di enologia: “Se dovessimo anche solo elencare tutti i vitigni che, più o meno legittimamente, portano il nome di Malvasia – e quindi cercare di stabilire quali hanno ragione di conservare questo nome e quali no – dovremmo occupare varie pagine, senza sperare di riuscire nell’intento.”
Nome diffusissimo del quale però non si ritrova traccia, in Italia, prima del XIII secolo. Da lì in poi, numerosissime sono le citazioni che “riguardano però i vini noti con questo nome (o con quello di Malvagia): non le uve o i vitigni. Ed è singolare che molte di tali citazioni si riferiscono a documenti riguardanti la Repubblica Veneta.”
La spiegazione è fornita dallo stesso Dalmasso: “Ormai è fuor di dubbio che il nome Malvasia deriva da quello d’una città greca della Morea, oggi Peloponneso: Monembasia o Monemvasia o Monovaxia il cui significato letterale è “porto con una sola entrata”, degenerato in Malfasia e italianizzato in Malvasia. Il lemma italiano di Malvasia passò allo spagnolo Malvagia, al portoghese Malvasia, al francese Malvoisie, all’inglese Malvesie e Malmsey, al croato Malvasije, allo sloveno Malvelzevec.
Le affermazioni di Dalmasso sono confermate, in anni più vicini a noi, da Michela Dal Borgo, direttore e coordinatore dell’Archivio di Stato di Venezia, che precisa: «É datata 1214 la prima citazione ufficiale del vino Monemvasios, prodotto a Monembasia, città fortezza fondata attorno al 588 in Laconia, che compare in una comunicazione di Nicola Mesarites, arcivescovo di Efeso, insieme ai vini di Chio, di Lesbo e dell’Eubea».
Nel 1248 i Veneziani penetrarono nella regione di Monemvasia e ne trasportarono i vitigni a Creta, che occupavano fin dal 1204 (all’epoca delle Crociate), mentre la città Monembasia passava in loro dominio più tardi, nel 1419. L’assoggettamento dei Veneziani continuò fino alla seconda metà del XVIII secolo, e la produzione e il commercio del vino di Malvasia divenne attivissimo, per poi decadere e cessare sotto la dominazione turca.
“Se, e fino a che punto”, scrive ancora il Dalmasso, “il vino che si produceva a Creta fosse eguale a quello originario di Monembasia, sarebbe azzardato voler oggi precisare. Pietro Belon nel 1589 scriveva che nell’isola di Creta si producevano due tipi di Malvasie: l’uno dolce, l’altro asciutto (chiamata dai Veneziani Malvasia garba, cioè acidula)”. È solo il caso di sottolineare come ancora oggi il nome Malvasia venga utilizzato per vini dolci (come quello dei Colli di Parma), addirittura passiti (una per tutti, la Malvasia delle Lipari) e per vini secchi, asciutti, come la Malvasia istriana e friulana.
L’importanza del nome per il successo dei prodotti è testimoniata da un episodio, certificato da un documento del Senato della Repubblica veneta del 2 luglio 1342: “Siccome il vino di Monobasia all’esportazione paga 10 libbre per ogni anfora, il vino di Creta solo 6, e molta Malvasia vien fatta venire da Creta ed è esportata a Venezia pagando il dazio del vino di Creta e da questo Comune subisce un forte danno; visto che la Malvasia di Monobasia può essere trasportata pure come Malvasia di Creta, dato che non è possibile distinguere l’una dall’altra (!), per evitare quest’abuso si delibera che d’ora innanzi qualunque vino Malvasia, di qualsiasi provenienza, paghi all’esportazione per Venezia libbre 8 su ogni anfora….”. Un nome talmente comune, quello di Malvasia, che a Venezia, nel Seicento o giù di lì, si chiamavano Malvasie i locali dove si vendevano i vini importati dalla Grecia (e, più in generale, dall’Oriente). Insomma, Malvasia autoctona di Monemvasia, ma anche di Creta, dell’isola di Chio. Allargando il campo di visuale: autoctono del Mediterraneo…
Proprio con il titolo Malvasia mediterranea, Ivica Matosevic, produttore di Malvasia istriana, qualche anno fa (primavera-estate del 2005) ha ideato un viaggio di studio, un pellegrinaggio di riscoperta. Ecco il suo racconto, pubblicato da Adriano Favaro sul quotidiano Gazzettino: “A dire la verità ci pensavamo da anni. Siamo partiti grazie anche alle collaborazioni che abbiamo avuto”. Tre golette con a bordo botanici, genetisti, biologi, storici. Tutti appassionati alla ricerca delle radici (non solo eufemistiche) del vitigno della Malvasia. Il progetto Malvasia mediterranea ha impegnato gli esploratori per tre settimane sul mare. Da Rovigno a Venezia passando per Split, Corfù, Zacinto, l’isola di Monemvasia (da dove arriva il vitigno), Pilos, Cefalonia, Santa Maria di Leuca, il Gargano, Porto San Giorgio, Venezia e infine Pola. Percorsi con un solo obiettivo e lo stesso messaggio di fratellanza, tanto che Ivica Matosevic ha pensato di mandare all’Unione Europea una lettera per eleggere “le Malvasie a simbolo di una fraternità europea.”
Oltre allo scopo “simbolico” del viaggio, i navigatori hanno raccolto 46 differenti tipi di Malvasia, per studiarne il Dna e ricostruire l’albero genealogico di una vite che con lo stesso nome è oggi è diffusa nei Paesi Mediterranei, nell’isola di Madera, nell’Africa del Sud, in California. Una vite, insomma, senza confini.
Ma tornando alla “nostra” Malvasia, la Malvasia istriana, di confini ne ha visti nascere (e cadere) parecchi. Nel 2013 – secondo le notizie più recenti – cadrà, con l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, anche quello tra la Slovenia e l’Istria; una terra questa che nel corso dei secoli, dopo il dominio della Repubblica di Venezia (che, durato dai primi secoli del secondo millennio fino al 1797, ha lasciato segni importanti nella storia, nella cultura e nella lingua) ha fatto parte dell’impero austro-ungarico (dopo un breve periodo di dominazione francese) fino alla prima Guerra mondiale, quando divenne parte del regno d’Italia; per diventare, dopo la seconda Guerra mondiale, parte della Jugoslavia… Il resto è storia attuale.
Ma i confini posti dagli uomini non hanno fermato il cammino della Malvasia. Scriveva Piero Pittaro quasi vent’anni orsono nell’articolo intitolato La Malvasia istriana: “Le prime tracce di impianti di vini Malvasia d’Istria risalgono al Trecento circa. Le zone di coltivazione salivano da Rovigno, Parenzo, Cittanova, fino al Carso triestino e goriziano. Lentamente poi passarono alla bassa friulana, alla zona trevigiana, al Trentino. Ancora oggi la Malvasia ha una certa diffusione nel Friuli Venezia Giulia, trovandola come vitigno raccomandato dalla Cee nelle province di Gorizia, Trieste, Udine e Pordenone. In tutta la regione, insomma. A differenza delle altre Malvasie (esistono Malvasie bianche, gialle, rosate, nere) la Malvasia d’Istria non ha sapore marcatamente di Moscato. Il frutto è quasi neutro o solo poco aromatico”.
Oggi la Malvasia istriana (questa la denominazione del vitigno; ma il vino, in ossequio al rispetto delle denominazioni geografiche, si deve chiamare solo Malvasia) è presente nei disciplinari delle Doc Carso, Collio, Colli Orientali, Friuli Annia, Friuli Aquileia e Friuli Isonzo. E dappertutto – in pianura come in collina – la Malvasia dà grandi soddisfazioni a chi la produce. Ma è bene sottolineare ciò che scriveva Pittaro: “Possiamo dire che ogni terreno è adatto a questo vitigno. Dobbiamo però altrettanto categoricamente affermare che ogni terreno dà una Malvasia diversa. Certamente le colline che da Tarcento arrivano al “Collio”, con la marna eocenica o l’avaro roccioso, secchissimo del Carso, sono il grembo ideale di questo vitigno che deve essere contenuto nella produzione per dare una qualità superiore. In queste zone la produzione è scarsa, ma in proporzione inversa la qualità del vino. In pianura il vino riesce di inferiore qualità, per la grande vigoria e la forte produzione.” Quasi superfluo aggiungere che, oggi, anche i produttori di pianura hanno imparato a sacrificare la quantità a favore della qualità. Ma leggiamo ancora Pittaro, che non si stanca di sottolineare: “Con lo stesso vitigno, coltivato in collina o in pianura, troviamo due vini completamente diversi. La Malvasia di pianura, specie quella prodotta in terreni sabbiosi o comunque abbastanza fertili, è un vino di colore giallo paglierino scarico, con riflessi verdognoli, leggermente profumato con bouquet che ricorda la limoncella. Sapore secco, citrino, poco caldo. È un vino beverino, non impegnativo, leggero di corpo e di alcol, facilmente digeribile anche se bevuto in cospicua quantità. Il discorso cambia notevolmente quando l’altitudine aumenta. Non più discreto, ma con prorompente personalità, spicca tra i migliori vini friulani. Di colore giallo paglierino tendente al giallo oro, alcolico, grasso per abbondante glicerina pur conservando innata una certa dose di aggressività citrina, bouquet leggermente aromatico e personalizzato, il Malvasia del Collio o del Carso è un vino particolare.”
Dopo questa scorribanda nella storia della (delle) Malvasia, è giunta l’ora di passare agli assaggi. Cominciamo dal più giovane, la Malvasia base 2009 di Marino Markežic´: la sua azienda si chiama Vina Kabola (www.kabola.hr) e si trova in Croazia, a Momiano, vicino al confine con la Slovenia. Abbiamo precisato versione “base” perché Marino di Malvasie ne produce tre: quella che abbiamo assaggiato (la più semplice, vinificata in acciaio), una versione Riserva (fatta riposare in botte da cinque ettolitri) e una denominata Anfora. Ma restiamo al nostro assaggio: vino fresco, gradevole, facile da capire e da gustare. Apprezziamo l’aromaticità da uve mature, evolute. Un “naso” importante, con sentori di pesca bianca che al gusto si accompagnano con tonalità amarognole, quasi di nocciolo di pesca.
Più complesso e impegnativo il secondo vino, la Malvasia 2008 prodotta da Benjamin Zidarich (www.zidarich.it) in Carso, a Prepotto di Duino Aurisina, tra il golfo di Trieste e il confine con la Slovenia. Un vino non filtrato, con una personalità ben marcata, che lascia il segno. La Malvasia di Benjamin è il risultato di una macerazione sulle bucce, seguita dalla fermentazione in botti grandi, e affinamento di due anni sempre in botte da 15 ettolitri; e infine, imbottigliamento senza filtrazione e nessun tipo di stabilizzazione. La cosa che più ci impressiona è la mineralità, un segno indelebile del territorio, della terra rossa carsica. Ma una volta abituati naso e palato, la complessità del vino si fa sentire con note di erbe aromatiche, di spezie, di frutta matura. Un vino da riassaggiare, magari nella terrazza panoramica di casa Zidarich, guardando il golfo e sognando un affascinante viaggio attraverso l’Adriatico, destinazione un porto del Peloponneso chiamato Monembasia.
© Riproduzione riservata - 17/08/2011