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La cucina italiana è diventata patrimonio dell’Umanità. E adesso?

19 Dicembre 2025 Marco Colognese
La cucina italiana è diventata patrimonio dell’Umanità. E adesso?
© bit24-Adobe Stock

È della scorsa settimana la notizia del riconoscimento Unesco per la nostra cucina. Di che cosa si tratta in pratica e qual è il traguardo che abbiamo raggiunto? È giusto aspettarsi ora anche una positiva ricaduta economica?

Un’esplosione di post sui social, cuoche e cuochi felicissimi, istituzioni raggianti, un piatto dopo l’altro, ciascuno a celebrare a modo suo e con assoluta enfasi la gioia del riconoscimento della cucina italiana come patrimonio Unesco. Dietro un risultato importante si cela davvero ciò che il termine in sé può far pensare, ovvero che sia proprio la cucina italiana a essere stata insignita di un traguardo mai raggiunto, a parte nel 2010 il “Repas gastronomique des Français”, il pasto gastronomico dei francesi inteso come rito sociale codificato? Oppure, come spesso accade, la superficialità con cui si tende a leggere una notizia, perché di certo questa lo è, ha spinto a non considerare ciò che effettivamente sta alla base di questo concetto?

I promotori della candidatura

A partire dal fatto che non tutti siamo così d’accordo sul fatto che esista realmente una sola cucina italiana e che il dibattito, acceso fin dal momento della candidatura, diventerà ancor più incandescente nei prossimi giorni. Facciamo un passo indietro, cercando di capire che cosa, esattamente, è stato riconosciuto patrimonio immateriale dall’Unesco come conseguenza del progetto presentato dalla rivista La Cucina Italiana con l’Accademia della Cucina Italiana e la fondazione Casa Artusi.

La dimensione culturale della cucina italiana

Partendo dal titolo del dossier, ovvero “Cucina Italiana tra sostenibilità e diversità bio-culturale”, bisogna sottolineare il netto punto di vista di Massimo Montanari, presidente del comitato scientifico promotore della candidatura e co-autore – insieme a Pier Luigi Petrillo – del libro Tutti a tavola, in cui si espongono le motivazioni culturali, sociali e identitarie alla base della proposta. Il professore, docente all’Università di Bologna e tra i massimi esperti al mondo in storia dell’alimentazione, in un articolo-intervista di Fabiana Salsi su La Cucina Italiana, contestualizza chiaramente, quando la giornalista chiede se il termine “cucina” lasci intendere che questa candidatura sia dedicata alle tecniche più che alla cultura culinaria.

La cucina italiana è inclusiva

La risposta è inequivocabile: «Assolutamente no. La candidatura riguarda il ruolo culturale della cucina nella vita degli italiani. E attenzione: degli italiani, anche fuori del nostro Paese. La cucina italiana la riteniamo un patrimonio universale perché tutti hanno contribuito a costruirla. È una cultura inclusiva, aperta a ogni ibridazione, a raccogliere tutto ciò che incontra; viceversa, è aperta e amichevole a incontrare altre culture al di fuori del Paese. Per questo si è affermata nel mondo: per la sua capacità di dialogare con gli altri. In entrata e in uscita». Ecco perché, nell’escalation che si genera a fronte di un titolo ad alto impatto si crea un bias, una distorsione cognitiva che porta ad appropriarsi di un risultato di ragguardevole prestigio, strumentalizzandolo a favore dell’una o dell’altra tesi, per la maggior parte quella che sostiene l’esistenza della cucina italiana come un corpus unico e inequivocabile.

I rischi legati alla tradizione

A questo proposito bisogna ascoltare quel personaggio scomodo che è il professor Alberto Grandi dell’Università di Parma, il quale sostiene il rischio della musealizzazione, in quanto per lui la cristallizzazione della tradizione è in sé una negazione della cucina, che è invece il risultato di una continua ibridazione e di confronto. In effetti, volendo essere precisi senza incorrere in quell’enorme equivoco a cui stiamo assistendo, quel che è stato riconosciuto realmente come patrimonio non sono questa o quella ricetta “tradizionale” ma il “sentire” degli italiani nei confronti della cucina e del valore che essa rappresenta culturalmente nel suo armonizzarsi alla vita di tutti i giorni.

Una pratica identitaria che unisce

Come sostiene Pier Luigi Petrillo dell’Università La Sapienza di Roma nella stessa intervista: «La cucina italiana è un mosaico dei saperi locali e territoriali che, senza gerarchie, la declinano e la connotano. (…) Non esiste in Italia una sola ricetta la cui esecuzione sia uguale ovunque. Nulla è standardizzato, tutto è rimesso alla libera scelta di chi cucina. In una stessa famiglia possiamo assistere a diverse interpretazioni dello stesso piatto perché il cibo è come l’acqua: assume il colore dei territori che attraversa. Ma, superando differenze locali, barriere dialettali, discussioni su come si debba preparare una certa ricetta, la dimensione del cucinare come pratica identitaria unisce tutti, da nord a sud, da est a ovest. Ed è questo fatto che rende unico l’insieme. La cucina italiana è, infatti, l’unione di tutte queste specificità, tenute insieme da un comune “sentimento dei luoghi” non come semplice somma di diversità, ma come condivisione che ne moltiplica il valore e che dà senso alla comunità».

La cucina territoriale

Palese è quindi il fatto che non si possa accettare la manipolazione di un percorso serio e ponderato strumentalizzandolo a favore di tesi insostenibili, com’è appunto quella di un corpus unico e pressoché monolitico a rappresentare un tema così prezioso come l’identità ramificata delle componenti specifiche della cucina italiana, demolendo in questo modo la ricchezza di ogni cucina territoriale. Attenzione, quindi, a non perdere l’occasione, questa sì ghiotta, di capire quanto sia fondamentale la dimensione culturale della cucina, troppo spesso derubricata a questione irrilevante.

L’impatto economico del riconoscimento Unesco

Allo stesso modo sarà interessante assistere all’impatto strategico di questo riconoscimento. A questo proposito, citiamo lo studio interdisciplinare del 2023 dell’Università La Sapienza di Roma su l’“Impatto economico dei riconoscimenti Unesco” concentrato su tre principali ambiti di analisi: flussi turistici nei siti e nelle tradizioni riconosciuti, sistema imprenditoriale e occupazione locali collegati alle pratiche Unesco e forza lavoro complessiva generata o influenzata dal riconoscimento, con l’obiettivo di distinguere il “valore aggiunto Unesco” dai fenomeni che si verificano per altre ragioni.

Gli esempi della pizza, di Pantelleria e del vino

Ebbene sono stati evidenziati aumenti del +284% dei corsi professionali per pizzaioli dopo il riconoscimento nel 2017 dell’arte del pizzaiuolo napoletano e una crescita complessiva del turismo sull’isola di Pantelleria con un +9,7% annuo medio e un picco di +75% nel turismo fuori stagione dopo che l’isola aveva ottenuto l’imprimatur dell’Unesco per la sua caratteristica vite ad alberello. E a proposito di viti, c’è spazio per il vino nel dossier? Certamente non è un oggetto autonomo, ma ci piace pensare possa giocare un ruolo coerente con la stessa logica che tutela la cucina, non quindi un mero aggregato di singoli prodotti ma come sistema di pratiche culturali, saperi e rituali sociali. La sfida è aperta.

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