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Il successo dei luppoli yankee (e l’epopea della birra negli Usa)

28 Dicembre 2018 Luca Giaccone

Solo 40 anni fa il numero di birrifici americani era ai minimi storici. Oggi è cresciuto fino a superare i 6.000. E il successo dilaga nel mondo grazie a una materia prima di qualità che crea uno stile intenso e deciso.

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in tutti gli Stati Uniti, si contavano soltanto 44 birrifici. È stato il punto più basso di tutta la storia birraria americana, impressionante se si considera che circa un secolo prima, nel 1873, gli impianti produttivi erano ben 4.131. Fortunatamente però gli anni Ottanta hanno visto la nascita di una vera e propria rivoluzione, destinata a cambiare per sempre il volto birrario statunitense.

Dal 2010 una crescita impressionante

Il numero di birrifici è tornato a crescere, erano 92 nel 1980, 284 nel 1990, 1.566 nel 2000, 1.813 nel 2010, anno in cui le cifre sono letteralmente esplose: 2.047 nel 2011, 2.475 nel 2012, 2.952 nel 2013, 3.785 nel 2014, 4.588 nel 2015, 5.491 nel 2016, 6.372 nel 2017. Una crescita che ha portato a conquistare una fetta molto significativa (il 12,7% di un mercato che complessivamente vale 111 miliardi di dollari all’anno) e che, soprattutto, ha imposto un profondo cambiamento all’idea stessa di birra.

Craft beer, piccole, indipendenti e tradizionali

Partendo dalla definizione di craft beer (birra artigianale), che l’americana Brewers Association così identifica come small, independent e traditional. Piccolo significa inferiore al 3% del mercato federale (cioè circa 7 milioni di ettolitri). Per capire l’entità della cifra, basta pensare che in Italia tutto il gruppo Peroni – che copre circa il 20% del mercato nazionale – produce un totale di circa 3,7 milioni di ettolitri! Indipendente significa che meno del 25% deve essere posseduto o controllato da un’azienda che non sia essa stessa una craft brewery. Tradizionale significa che “la maggioranza delle birre prodotte deriva da materie prime “tradizionali o innovative” [sic] e dalla loro fermentazione”.

Originalità di stile e comunicazione

Sostanzialmente si vietano i succedanei come mais e riso, largamente utilizzati dall’industria, lasciando però spazio alle materie prime più insolite, piuttosto diffuse a livello artigianale. Al di là della (non semplice, come si può intuire) definizione è però impressionante notare come i birrifici craft abbiano completamente cambiato le regole del gioco e tutto il mercato. Lo hanno fatto mettendo al centro il prodotto, commercializzando birre con spiccata personalità, a volte magari anche sopra le righe, ma certamente lontane dalla standardizzazione e dall’appiattimento gustativi voluti dal comparto industriale.

 

 

Usa, primo produttore di luppolo al mondo

Un’epopea, quella delle birre americane, fortemente legata alla filiera delle materie prime, in particolare al luppolo. Secondo i dati Hopsteiner (tra le più grandi imprese di coltivazione, commercio, allevamento e trasformazione del luppolo, ndr), nel 2017 sono state raccolte, in tutto il mondo, 113.902 tonnellate di Humulus lupulus. Di queste circa il 40% (45.110 tonnellate) provengono dagli Stati Uniti, con la Germania che insegue al secondo posto (41.556 tonnellate). A enorme distanza troviamo Repubblica Ceca (6.750), Cina (5.513), Slovenia (2.736), Polonia (2.500), Inghilterra (1.781) e Australia (1.438).

Profumi decisi e retrogusto amaro

I luppoli americani sono profumatissimi, offrono riconoscibili note di agrumi, resina di pino e frutta tropicale. Sono freschi, incantano per potenza aromatica e rendono più semplice l’approccio con un gusto indotto come quello dell’amaro.

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