Il ruolo dell’enoteca

Il ruolo dell’enoteca

A cosa serve l’enoteca?

Non vorrei sembrare insensibile nel pormi un quesito del genere in un anno così duro e addirittura in piena serrata multicolore (tra zone rosse, arancioni e gialle), ma riflettendo sul futuro del vino post-Covid, quando cambieranno molte cose lungo tutta la filiera (produzione, distribuzione, commercio al dettaglio, marketing, comunicazione, fiere ed eventi…) un dubbio particolare lo solleva quell’istituzione antica e purtroppo oggi percepita come obsoleta chiamata “enoteca”: serve ancora? A chi? (leggi qui le risposte dei lettori).

Il digitale ci ha aiutato durante il lockdown

Ovviamente i lockdown hanno favorito gli acquisti elettronici, dalla frutta ai libri al vino, e – insieme alle piattaforme di distribuzione di film e serie tv – il digitale, siamo onesti, ci ha reso meno amara la reclusione. E al contempo abbiamo fatto un balzo in avanti nelle dotazioni e nelle competenze informatiche, dato che ci trovavamo piuttosto arretrati rispetto agli altri Paesi industrializzati.

La domanda sul ruolo dell’enoteca oggi è scontata?

Ma l’enoteca tradizionale è davvero destinata al declino? Sarebbe bello potessimo considerarla una domanda retorica con risposta scontata “no”. Tanto più che il lettore qualche dubbio dovrebbe farselo venire, considerando il palese conflitto di interessi dello scrivente, che ha aperto nel 2011 l’enoteca di Civiltà del bere (l’enoluogo) a Milano.

La nostra storia

In realtà credo che i motivi che ci spinsero (all’epoca con mio fratello Max) ad aprire un’enoteca siano gli stessi per cui sono convinto dell’importanza di questi luoghi. Volevamo innanzitutto recuperare il contatto con il consumatore, con l’appassionato di vino. Dopo essermi dedicato per tanti anni soprattutto alla comunicazione rivolta ai professionisti, mi rendevo conto che, per comunicare al meglio, era imprescindibile il contatto con il mondo reale, con chi lecitamente può confondere i termini vigneto e vitigno, può chiedere uno “Straminer” o cercare disperatamente un Prosecco francese. E soprattutto con chi si perde (e noi perdiamo lui…) dietro al linguaggio cosiddetto “tecnico”, il quale diciamolo… cui prodest?

La difficoltà di parlare di vino in modo semplice

Tanti si danno un tono parlando a produttori e ad enologi imitandone (anche benissimo) il linguaggio, esibendo solide conoscenze tecniche anche sottili, citando precisamente il nome del composto chimico responsabile di questo o quel profumo (se interessa l’argomento, piuttosto leggete il libro Il respiro del vino del professor Luigi Moio, enologo di fama internazionale)… qualcuno si spinge a spiegare al vignaiolo come migliorare il prodotto. Sembra essere un tarlo della comunicazione del vino (specialmente in Italia). Chissà perché, l’esperto di musica generalmente non spiega al direttore d’orchestra come leggere una partitura, al limite esprime un giudizio sulla riuscita dell’opera.

Accendere una scintilla di curiosità

Se ci troviamo di fronte a un semplice bevitore (il 99,9% degli acquirenti) l’abilità sta nel fargli comprendere nel minuto che hai a disposizione, che tipo di vino proponi (con una breve descrizione di profumi e gusto, senza esagerare), e se possibile si aggiunge una suggestione per portare il cliente con la fantasia nel luogo o nella famiglia dove viene fatto quel vino. Non solo, se hai superato il livello 1 (non annoiarlo e convincerlo ad assaggiare ciò che proponi) è possibile che, felice dell’esperienza, ritorni e si conceda un livello 2, ovvero – accesa la curiosità – comincia a volerne sapere di più, e allora comincia la parte più bella del nostro mestiere: trasmettere passione e cultura enologica. Avremo anche – forse – regalato un pizzico di felicità.

Due episodi reali

Citerò due casi recenti che hanno ispirato la presente riflessione e che rispondono al quesito iniziale. Primo, un appassionato sulla quarantina è entrato in enoteca e dopo quattro chiacchiere ha espresso la sua soddisfazione per l’esperienza, lamentando la difficoltà nel trovare luoghi del vino dove confrontarsi con persone preparate. Una ragazza sulla trentina, il giorno dopo, si è presentata felice, dopo il fine settimana, solo per ringraziare per la scelta dei vini, che lei e il suo compagno si erano goduti appieno, perfettamente in linea con i loro gusti e le loro attese. E, naturalmente, ha ripetuto (e potenziato) l’acquisto.

L’enoteca, un luogo in cui raccontare il vino

Due scene, se vogliamo, banali, di vita quotidiana, che però raccontano i motivi per cui l’enoteca è insostituibile; lo scambio di conoscenza e di esperienza arricchito dal rapporto umano. Con questi elementi il vino raggiunge la sua più alta sfera, impossibile da replicare con qualsivoglia realtà virtuale, applicazione “user friendly” o sito altamente “responsive” per una migliore fruizione su smartphone.

In rete è forse tutto più facile, ma meno umano

Si possono trovare prezzi migliori, nella rete, è chiaro, per motivi logici (le grandi piattaforme muovono enormi quantitativi) o dubbi (fateci caso, spesso “l’affare” è solo sulla carta, la merce esaurita) o addirittura fraudolenti (sarebbe meglio acquistare vini importanti da rivenditori “on line” di comprovata affidabilità). A volte, è vero, si rischia anche in enoteca: il vino sa di tappo, è guasto, è rimasto troppo a lungo sullo scaffale. Certo una seccatura quando stai per annunciare una proposta di matrimonio, ma il problema è presto risolto: torni alla tua enoteca e sistemi la cosa. Nella maggior parte dei casi, infatti, per non rompere il rapporto fiduciario, se il sentore di tappo in realtà non c’era, sorridi e cambi la bottiglia.

Pensiamo a come salvare le enoteche

Come fare allora perché resistano questi bastioni della cultura enologica? Potrebbe essere il prossimo quesito della nostra Terza pagina. Lo chiederemo anche ad altri colleghi enotecari, a chi questo bel mestiere lo esercita da generazioni. Noi siamo solamente giornalisti prestati alla causa.

Foto in apertura di S. Warman per Unsplash

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© Riproduzione riservata - 20/11/2020

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