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Omaggio a Giacomo Tachis “mescolatore di vini”

12 Febbraio 2016 Civiltà del bere

di Cesare Pillon

La scomparsa di un uomo che ha segnato così profondamente la sua epoca come Giacomo Tachis è destinata fatalmente a provocare un’ondata di retorica. Una volta tanto non è il caso di dispiacersene, l’enfasi è giustificata. Con Tachis è venuto a mancare un personaggio realmente eccezionale: il protagonista assoluto, sotto il profilo tecnico, del Rinascimento del vino italiano, l’uomo che affinando il Sassicaia e creando con il Tignanello e il Solaia una nuova categoria di vini ha fatto scoprire al mondo il Made in Italy enologico. Lo studioso che con un’intensa attività di ricerca in Sicilia e in Sardegna ha messo in evidenza l’unicità del vino mediterraneo. L’umanista che citava i classici e sosteneva che “se non c'è la passione, se non c’è l'anima, se non c'è la cultura, non si fanno l'uva e il vino".

La falsa liturgia della santificazione

È il caso invece di dispiacersi perché i riconoscimenti che vengono attribuiti a lui e alla sua opera in questi giorni suonano falsi perché seguono la liturgia della santificazione del defunto che si celebra in Italia ogni volta che muore un uomo di vasta notorietà. Suonano falsi soprattutto perché, da quando Tachis si era ritirato a vita privata, nell’aprile 2010, e fino al giorno della sua morte, non gli erano state invece risparmiate critiche velenose, all’insegna del motto “In Italia si perdona tutto meno il successo”. Che cosa gli si è imputato? Al netto delle accuse più meschine, gli è stato rimproverato d’aver introdotto il Cabernet Sauvignon e le altre varietà bordolesi nei SuperTuscans, infrangendo la tradizione e tradendo i vitigni autoctoni, il Sangiovese in particolare.

Alle critiche rispose Giacomo Tachis

Lui aveva replicato da par suo, ricordando che storicamente le viti in Gallia, completamente estirpate per ordine dell’imperatore Domiziano, erano state fatte ripiantare dall’imperatore Probo con ceppi importati dall’Italia: ragion per cui l’importazione di vitigni francesi in Italia è una restituzione. In quanto al Sangiovese, con molta signorilità non aveva voluto ricordare ch’era stato il primo a cercare di ottenerlo, con selezioni clonali mirate, “più grasso e più rotondo, con tannini dolci, ma pur sempre Sangiovese”. Aveva preferito sostenere che il vitigno conta fino a un certo punto: sono il clima, la luce, l’ambiente che fanno la differenza. La scelta del vitigno dipende perciò dalla sua capacità di entrare in simbiosi con l’ambiente.

"Mescolare i vini" è l'unica via?

In realtà l’unica critica che si sarebbe potuto muovere a Tachis, e che lui non avrebbe potuto contestare, era impossibile rivolgergliela perché se l’era già rivolta lui stesso, ripetendo fino alla noia di essere semplicemente un “mescolatore di vini”. Sembrava una spiritosa proclamazione di falsa umiltà e invece era la pura verità: nemmeno uno dei vini da lui creati è monovarietale, sono tutti “mescolati” perché ricavati dalle uve di due o più vitigni. Lui sosteneva che “quell’equilibrio, quella qualità organolettica, quelle note caratteristiche” che si raggiungono con la tecnica del taglio non si possono ottenere vinificando le uve di un solo vitigno. Opinione legittima ma contestabile. Ecco: un bel modo per rendere omaggio alla sua memoria potrebbe essere proprio un dibattito su questo tema. Giacomo Tachis non merita lo stanco rituale di una ipocrita glorificazione: ciò che ha fatto è stato di tale valore che individuarne i confini non ne sminuisce il peso, anzi, serve a valutarne l’importanza.

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