Viaggio nel tempo: 5 decenni, 5 vini, 5 storie
Degustare un vino non è solo un’esperienza edonistica, ma anche un modo per vivere il suo tempo e la sua storia. È anche un momento culturale. Con questo spirito è stata ideata e condotta da Luciano Ferraro (Corriere della Sera) e Alessandro Torcoli (Civiltà del bere) la degustazione “Viaggio nel tempo. 5 decenni 5 vini 5 storie”, che si è svolta lunedì 6 novembre al Museo dei Navigli di Milano, durante la manifestazione Wine Days di Civiltà del bere.
I cinque protagonisti
Solo un pubblico selezionato di una trentina di giornalisti, professionisti del settore ed appassionati ha avuto la possibilità di assaggiare 5 gioielli, quasi introvabili, ognuno rappresentativo del proprio decennio. Amarone della Valpolicella Classico Superiore Doc 1967 di Bertani (anni Sessanta); Rubesco Vigna Monticchio Torgiano Rosso Riserva Doc 1974 di Lungarotti (anni Settanta); Turriga Isola dei Nuraghi Igt 2008 di Argiolas (anni Ottanta); Solaia Toscana Igt 2006 di Marchesi Antinori (anni Novanta) e Cometa Sicilia Igt 2010 di Planeta (anni Duemila). Gli ultimi tre proposti in annate più recenti. «Non è stato semplice selezionare 5 vini iconici senza tralasciarne qualcuno», ha spiegato Alessandro Torcoli.«Siamo però sicuri di aver scelto 5 etichette che hanno avuto un grande senso, ognuna per la sua epoca».
Bertani, una storia che inizia a fine anni Sessanta
A inquadrare storicamente le Cantine e i loro vini ci ha pensato Luciano Ferraro: «A fine anni Sessanta, quando nacque l’Amarone Bertani, l’azienda veneta era già affermata nel mondo». Era nata nel 1857 e i fratelli Giovan Battista e Gaetano Bertani della Valpantena avevano subito dimostrato grande lungimiranza acquisendo terreni nel Soave e nella zona di Bardolino. Poco dopo iniziarono a imbottigliare il vino. A inizio Novecento già esportavano negli Stati Uniti. Nel 1922 il Corriere della Sera pubblicò un articolo sulla cena di gala del Ristorante Carminati, durante la quale sarebbero stati serviti vini Bertani (Soave e Valpolicella). Il tutto per 45 lire. Nel 1958 nacque l’idea di produrre un grande vino della Valpolicella che dimostrasse longevità scostandosi dalle mode del momento: l’Amarone, dal carattere forte ma di estrema eleganza.
Immutato nel tempo l’Amarone Bertani 1967
Questa filosofia si è mantenuta nel tempo e solo negli anni Ottanta arrivarono il riconoscimento e il successo. «In azienda esiste da sempre una cultura enologica molto alta», interviene Andrea Lonardi, direttore operativo Bertani Domains. «Quando si decise di creare l’Amarone si pensò solo di fare un grande vino che prima o poi sarebbe stato capito». L’annata 1967, che abbiamo assaggiato durante la degustazione, è rimasta in botte di rovere di Slavonia per ben 18 anni prima di essere imbottigliata. «Al naso riconosciamo note di prugna secca, nocciola, tartufo nero, noce e un tocco di cioccolato, che qui però non è la nota principale come accade in genere per l’Amarone», spiega Alessandro Torcoli, che si è occupato della descrizione organolettica delle bottiglie in degustazione. È un vino di grande complessità e profondità, che conserva immutato negli anni ancora il suo frutto.
Lungarotti, pionere in Umbria
Giorgio Lungarotti è l’uomo che ha contribuito a portare la vitivinicoltura dell’Umbria allo stesso livello delle altre grandi regioni italiane. «Lo stesso uomo che nel 1975 incontrò Mario Soldati», ricorda Luciano Ferraro, «che allora esplorava la nostra Penisola. Dalla sua penna sarebbe nato di lì a poco Vino al Vino, libro ancora oggi fondamentale per comprendere il mondo del vino italiano».
Rubesco, una regione in bottiglia
Negli anni Settanta Giorgio Lungarotti decise di dar vita a un vino importante come il Rubesco (dal latino rubescere, cioè arrossire), che fosse in grado di far emergere l’Umbria nel panorama nazionale. Oggi le uve di Sangiovese e Canaiolo del Rubesco fermentano in acciaio e il vino affina poi 2 anni tra botte e bottiglia. La Riserva arriva a 5 anni (una volta erano 10). In degustazione il 1974 (che porta lo stesso anno di fondazione della rivista Civiltà del bere). Il bouquet è ampio: il frutto si è fatto un po’ da parte per lasciar spazio alla freschezza data dalle erbe aromatiche, al chicco di caffè, tartufo nero, tabacco e pelliccia. «Fa venire proprio in mente l’Umbria, cuore verde d’Italia», commenta Alessandro Torcoli. «E il carattere dei suoi abitanti». In bocca conserva sapidità e mineralità, con una sensazione quasi pietrosa, ferrosa, e una lunghezza che dura minuti.
Argiolas e l’omaggio a Giacomo Tachis
Il Turriga, terzo vino degustato, nasce nel 1988 per opera (segreta) di Giacomo Tachis, grazie a un accordo tra il produttore Franco Argiolas e Piero Antinori, della cui azienda l’enologo era allora direttore. Il contributo di Tachis alla Cantina sarda non si limita alla creazione del Turriga. Ancora oggi si lavora utilizzando le vasche di cemento da lui volute e la tecnologia in vigna, come le sonde che rilevano carenze idriche e prevengono lo stress delle piante dovuto alla siccità.
Turriga, elegante e dal carattere Mediterraneo
Il Turriga è un grande vino a base di Cannonau, Carignano, Bovale sardo, Malvasia nera, che rispecchia un’idea enologica: coniuga la passione per il Mediterraneo di Tachis con il concetto di souplesse, che in termini enologici riunisce le nozioni di eleganza, morbidezza e volume. Nel vino si sentono tutta la potenza e il calore del clima mediterraneo. Al naso lampone, prugna sunsweet, erbe aromatiche come lentisco e rosmarino. In bocca ha il calore e la potenza ingentilite dalla mano sapiente di Tachis, con un tessuto morbido e un tannino maturo ben levigato.
Solaia, un Tignanello “al contrario”
Alla Marchesi Antinori, dopo il grande rosso Tignanello, primo SuperTuscan dell’azienda a base di Sangiovese (in prevalenza), Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, Piero Antinori e Giacomo Tachis pensano di creare “il suo contrario”, cioè il Solaia. La storia tramanda che il Solaia sia nato da una vendemmia fortunata di Cabernet nella tenuta Tignanello, in un vigneto particolarmente vocato con esposizione a sud-ovest e ad altitudine di 400 metri. Le uve, infatti, sono a prevalenza Cabernet Sauvignon con Sangiovese e Cabernet Franc. L’etichetta del vino è mutuata dal biglietto da visita di Piero Antinori. Anche il Solaia, altro figlio di Tachis, segue il principio della souplesse. Nonostante abbia identità e carattere toscani grazie al Sangiovese, in bocca si sente abbondante materia, morbidezza e piacevolezza. Al naso sensazioni di tabacco, pelliccia, bosco e sottobosco, con note di mirtillo e frutto preservato, nonostante i suoi 11 anni.
Cometa: l’autoctono-alloctono che ha stupito l’Italia
Ci spostiamo, infine, in Sicilia. Da qui arriva l’unico bianco in degustazione che ha saputo tener testa ai quattro grandi rossi precedenti. Il Cometa è un vino sperimentale. Nasce dal movimento di riscoperta dei vitigni autoctoni sull’isola iniziato da Diego Planeta. Proprio lui aveva voluto in Sicilia la consulenza di Giacomo Tachis, di Attilio Scienza dell’Università di Milano e del sociologo Giampaolo Fabris per capire come produrre vini che potessero piacere ai gusti degli italiani. Il Cometa nasce dall’autoctono campano Fiano allevato in contrade siciliane ad altezze elevate. L’annata 2010 al naso evidenzia note agrumate, di pompelmo (tipico del Fiano), di zagara (tipica siciliana). Emerge poi l’idrocarburo con nota minerale. Al palato prevale la nota sapida, accanto alla dolcezza e rotondità, con finale agrumato, a richiudere il cerchio.
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© Riproduzione riservata - 10/11/2017