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Vespe “custodi” del lievito del vino. Lo dice l’ultima ricerca Fondazione Mach

Vespe “custodi” del lievito del vino. Lo dice l’ultima ricerca Fondazione Mach

Dove risiede il Saccaromices cerevisiæ (o “fungo del saccarosio”) – lievito fondamentale per la fermentazione naturale del vino, della birra e del pane – nei mesi invernali e primaverili? Una ricerca della Fondazione Edmund Mach dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige, recentemente pubblicata sulla rivista statunitense Pnas (Proceedings of the Natural Academy of Sciences) individua in vespe e calabroni i suoi principali custodi.

DALLE VESPE ALL’UVA – Il fungo del saccarosio è responsabile della trasformazione dello zucchero in alcol (nella vinificazione, il passaggio dal mosto al vino). La scoperta consente per la prima volta di completare il ciclo ecologico di questo lievito, la cui presenza era finora attestata solo durante le fasi di produzione e fermentazione di vino, birra e pane. Il Saccaromices cerevisiæ trascorre un periodo del suo ciclo vitale nell’intestino dei vespidi (Vespula vulgaris o vespa comune europea, e Vespa cabro o calabrone): «Quando i frutti maturano, questi insetti sono atratti dal loro odore, li rompono grazie ai loro potenti apparati mandibolari e inoculano questi micro-organismi al loro interno», spiega Duccio Cavalieri, tra gli autori dello studio.

A DIFESA DELLA BIODIVERSITÀ GEOGRAFICA – Importante conseguenza di questa scoperta è che i vespidi contribuiscono attivamente alla conservazione delle biodiversità microbiche caratteristiche di una certa vigna o di un’area definita. Analizzando a livello genomico i micro-organismi presenti in insetti, uve e vini provenienti da varie zone, i ricercatori hanno distinto diversi ceppi di lieviti; confrontandoli, sono emerse affinità tra i campioni (animali e vegetali) della stessa area geografica. Vespe e calabroni, quindi, portano con sé le caratteristiche di un certo areale, custodendo, in un certo senso, la tipicità dei prodotti fermentati.

I VOLTI DELLA RICERCA – L’indagine pubblicata è legata a una ricerca iniziata nel 1998. Hanno portato a questa sorprendente conclusione gli studi di un pool di ricercatori dell’Istituto di San Michele all’Adige (Duccio Cavalieri, Carlotta De Filippo e Roberto Viola), in collaborazione con il dipartimento di Biologia animale e genetica e di Farmacologia dell’Università degli studi di Firenze (Irene Stefanini, Leonardo Dapporto, Stefano Turillazzi, Mario Polsinelli, Antonio Calabretta e Monica Di Paola) e il Centre national de la recherche scientifique – Institut de Génétique Moléculaire di Montpellier (Jean-Luc Legras).

 


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© Riproduzione riservata - 26/09/2012

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