Soave Doc, una questione garbata. Ci scrive il direttore del Consorzio

Soave Doc, una questione garbata. Ci scrive il direttore del Consorzio

A proposito della rubrica Luoghi (non) comuni di Cesare Pillon: “Doc: chi meno produce meglio produce. O no?”, uscita sul numero gennaio-febbraio 2018 a pag. 7 (e online qui), pubblichiamo volentieri la lettera di Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio di tutela del Soave Doc, e la risposta dello stesso Cesare Pillon.

 

Ci scrive Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio tutela Soave

 

Alla cortese attenzione di Cesare Pillon
e della redazione di Civiltà del bere

Gentilissimo,

Ho avuto modo di leggere sull’ultimo numero di Civiltà del bere il Suo intervento sul Soave dove ha analizzato il percorso fatto dalla denominazione nei suoi primi 50 anni di vita.
Se da un lato il pezzo sembra essere molto critico sulle scelte operate dai produttori, dall’altro registro un particolare attaccamento a una denominazione che ha fatto la storia del vino italiano anticipando spesso valori e criticità.

Una denominazione

che ha fatto la storia del vino italiano

Nell’ambito dell’articolato panorama del vino italiano il Soave, con le sue dinamiche storiche, produttive e commerciali, ha infatti rappresentato un punto di riferimento per l’aspetto stilistico ed organizzativo fino a diventare oggi un sistema produttivo originale caratterizzato dalla specificità produttiva, dalla coerenza espressiva e dalla costanza dei volumi commercializzati. Questi sono i fattori fondamentali insieme alla flessibilità, alla lungimiranza organizzativa e a un’attenta gestione delle produzioni che hanno consentito a un “fenomeno” di diventare sistema. Un sistema che da sempre distribuisce reddito e sicurezza alle imprese impegnate nella filiera (uva, vino, bottiglie) anche nei momenti più complicati dal punto di vista commerciale. Un sistema che, pur caratterizzato da aziende agricole piccole e polverizzate sul territorio ha saputo, con l’aggregazione e l’innovazione, rimanere competitivo.

I fattori che hanno consentito a un “fenomeno” di diventare sistema

che da sempre distribuisce reddito e sicurezza

e ha saputo rimanere competitivo

Ritengo quindi, alla luce di quanto espresso, di fare un po’ di chiarezza su alcuni concetti che troppo spesso ricorrono, ma che non corrispondono alla realtà produttiva attuale.
Il riconoscimento delle storiche Doc veronesi Soave, Valpolicella e Bardolino avviene solo nel 1968 alla luce di una profonda riflessione dei produttori che hanno dovuto confrontarsi per trovare la chiave di lettura più corretta e Zeffiro Bocci ne è stato un buon testimone in tanti suoi pezzi di quella fase articolata di confronto.

I confini delle storiche Doc Soave, Valpolicella e Bardolino nel 1968

sono la fotografia del vigneto allora presente

La fotografia che ne è uscita credo sia quella più corretta, anche alla luce delle dinamiche commerciali degli anni a venire. Se non fossero state considerate e riconosciute a denominazione anche gli areali contigui alle zone storiche nel giro di qualche anno avremo assistito ad un boom di richieste di nuove Doc (magari dichiarate in valli come dell’ipotesi dell’istituto di Conegliano 1931) Val d’Illasi, Val Squaranto, Val d’Alpone, Val Tramigna. Solo per citare le aree oggi ricomprese nella doc Soave. I confini definiti nel ’68 per queste 3 storiche denominazioni recepivano, e non poteva essere altrimenti, la fotografia del vigneto allora presente.

Il Soave Classico vale

più di 1/5 delle vigne a denominazione

Per quanto riguarda il Soave oggi come allora il Classico vale circa 1.500 ettari quindi più di 1/5 delle vigne iscritte alla denominazione. Altri 2.500 vigneti sono coltivati negli areali collinari dei comuni ricompresi in tutto o in parte nella Doc e valorizzati nel 2002 con la sottozona Colli Scaligeri.
Le vigne iscritte alle Doc nell’area pedecollinare e pianeggiante sono circa 3.000 ettari e non rappresentano neanche la metà del Soave.
Allo stesso modo le modifiche delle regole relative ai vitigni seguono nello stesso modo il concetto di fotografare la realtà produttiva. Se errori sono stati fatti, c’è stata anche la capacità di riconoscerlo e di fare nuove e più virtuose scelte.

Se errori sono stati fatti

riconosciamolo con scelte più virtuose

La possibilità di evidenziare in etichette il 100% di Garganega ha consentito di riqualificare un vitigno che forse non è mai stato sufficientemente compresso in termini di qualità e distintività.
Oggi, come ha ben segnalato, è tornata una nuova attenzione al Trebbiano di Soave che anche espresso in purezza definisce in questi areali, vini dallo stile chiaramente “Soave” e le riflessioni in questa direzione non si sono mai sopite.

Riqualificare Garganega

e Trebbiano di Soave

Sul fronte delle quantità (che poi riporta nel titolo) la riflessione potrebbe essere più articolata ma credo che anche in questo caso occorra essere seri e pragmatici.
Nuovi cloni e nuove tecniche di coltivazione hanno di fatto modificato nel tempo la reale potenzialità produttiva, soprattutto negli aerali pianeggianti. Non riconoscere questa realtà per una varietà generosa come la Garganega, avrebbe voluto dire penalizzare una parte importante della viticoltura del Soave.
I 150 quintali per ettaro non sono mai stati un problema per raggiungere una qualità percepita, il rischio è quando si va oltre.

150 quintali per ettaro

non limitano la qualità percepita

grazie a nuovi cloni e tecniche produttive

In queste stesse zone oggi vengono coltivate altre varietà (Pinot grigio e Glera) riconosciute per altre denominazioni con limiti di resa ben più elevati (ed oggi anche con risultati commerciali di indubbio interesse).
La Doc Soave, che 50 anni fa rappresentava oltre il 30% del patrimonio vitivinicolo del Veneto, oggi conservando la stessa potenzialità 7.000 ettari non rappresentano più dell’8 % della superficie vitivinicola regionale. Con i suoi 53 milioni di bottiglie (+5%) rispetto al 2016 oggi è solo la settima denominazione nel contesto regionale (un decimo di quanto prodotto da altre Doc).
Oggi quindi il Soave è sì una denominazione storica, ma si configura come un territorio limitato e circoscritto che ha fatto dell’identità e della coerenza produttiva i suoi valori.
Garganega e Trebbiano, pergola veronese, suolo vulcanico e calcareo, cooperazione virtuosa e piccole aziende definiscono oggi il profilo di una denominazione che pur in un contesto commerciale oggi molto aggressivo e dinamico, può guardare ai prossimi 50 anni della sua storia con tanta fiducia.

È un periodo di grande vitalità della denominazione

in attesa del riconoscimento dei Cru del Soave:

le Unità geografiche aggiuntive

Il ricambio generazionale in atto con tante nuove aziende e il consolidamento sui mercati delle aziende storiche sottolineano un periodo di grande vitalità della denominazione. Il recente riconoscimento come primo paesaggio rurale di interesse storico e la prima candidatura italiana come patrimonio GIAHS-FAO per le Colline Vitate del Soave vedono riconosciuto il percorso straordinario fatto in questi 50 anni dai produttori. Alla luce del grande lavoro di ricerca attivato dal Consorzio con la zonazione, il 2018 vedrà finalmente l’avvio dell’iter per l’implementazione nel disciplinare delle Unità geografiche aggiuntive (Cru). Sul fronte della sostenibilità il modello di gestione viticola avanzata del Soave definisce per i produttori nuovi livelli di responsabilità e certifica il valore ecologico e ambientale del vigneto quando ben gestito.
Certo il lavoro da fare è tanto e mi piacerebbe condividerlo anche con Civiltà del bere e i suoi lettori. Quindi vi aspettiamo a Soave a partire dalla prossima edizione di Soave Preview programmata per il prossimo 17-18 maggio p.v. e per la quale alleghiamo il programma.
E un grazie sincero amico Cesare per avermi dato lo stimolo per questa riflessione.
La leggo sempre volentieri.

Aldo Lorenzoni

presidente del Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave

 

Soave doc vigne

 

La risposta di Cesare Pillon al direttore del Consorzio tutela Soave

 

Gentilissimo,

di fronte a una lettera così civile e pacata come la sua, proverei un certo imbarazzo a polemizzare. Cercherò quindi di non farlo, chiarendo però perché siamo costretti a essere in disaccordo. Sono infatti convinto che tra noi due sia in corso un gioco delle parti: io, come giornalista, mi sento in dovere di segnalare gli errori che secondo me hanno compromesso l’immagine del Soave, che mezzo secolo fa era il vino bianco più importante e famoso d’Italia e adesso non lo è più; e lei, a nome del Consorzio, non può fare a meno di replicare.

Il giornalista e il Consorzio:

siamo costretti a essere in disaccordo

Sono questi due ruoli che dettano le nostre posizioni. Lei infatti non contesta i fatti che ho denunciato: di qualcuno precisa l’entità ma soprattutto li misura con un metro diverso dal mio. Un linguista avrebbe di che divertirsi ad analizzare le nostre espressioni contrapposte. Mi limito a sottolineare la più divertente: al tono scandalizzato con cui ho disapprovato l’inclusione di aree pianeggianti nella zona autorizzata a produrre il Soave Doc, lei precisa che si tratta di 3 mila ettari su 7 mila, Secondo me sono “quasi la metà” del Soave, cioè un’enormità; lei invece dice che non sono “neanche la metà”, come a dire che sono un’inezia.

Le aree pianeggianti del Soave Doc

sono quasi la metà: un’inezia o un’enormità?

La chiave per capire come mai due persone come noi, che ragionano pressappoco alla stessa maniera, possano giudicare in modo opposto perfino le cifre, mi è sembrato di coglierla nel suo invito a essere seri e pragmatici. Credo d’essere anche troppo serio, ma mi rifiuto di essere pragmatico, se ciò significa credere che grazie a nuovi cloni e nuove tecniche di coltivazione si può realizzare vino di qualità (“di qualità percepita”) producendo 150 quintali di uva per ettaro “negli areali pianeggianti”. Ammetto però che se fossi al suo posto probabilmente sarei tenuto a sostenerlo anch’io.

Vino di qualità

a 150 quintali a ettaro?

A impormelo, se ricoprissi il suo ruolo, sarebbe proprio la legge 930 che nel 1963 istituì le Doc, delegando i produttori a elaborarla, ciascuno per il proprio vino, come lamentavo nel mio intervento, senza fornire una linea generale di condotta, chiedendo semplicemente, come spiega bene lei stesso, “di fotografare la realtà produttiva”. È la legge, quindi, che impone a lei e al Consorzio di essere pragmatici, cioè di limitarsi a prendere atto dell’esistente. La fonte di tutti i guai è stata la decisione di spacciare poi la Doc, frutto di un semplice censimento dei vini prodotti in Italia, ottimi, buoni, mediocri e magari anche pessimi, come fosse l’Aoc francese, cioè una patente di nobiltà.

La fonte di tutti i guai:

spacciare la Doc, un semplice censimento dei vini prodotti in Italia,

come l’Aoc francese, cioè una patente di nobiltà

Anche in Francia, bisogna ammetterlo, vini di livello molto diverso si fregiano della stessa Appellation. Però hanno anche una precisazione in etichetta che indica su quale gradino stanno di una rigorosa piramide della qualità. Lei può obiettare che anche il Soave Classico è una precisazione. Ma è una precisazione che non riguarda il livello qualitativo, ed è facile capire perché: in tutte le Doc, non solo nel Soave, i produttori che non hanno il loro vigneto nel territorio Classico non hanno alcun interesse a sottolinearlo ai consumatori, chiarendo così che quello che producono loro è un Soave, piuttosto che un Chianti o un Valpolicella, di complemento. E poiché sono sempre in maggioranza (nel Soave il 78,6%) hanno scelto questo aggettivo. Sarà democratico ma non è trasparente.

Oggi l’impresa è costruire una piramide di qualità

per distinguere il Soave d’eccellenza dal mediocre

Ho però l’impressione di sfondare una porta aperta: le iniziative più importanti prese negli ultimi dieci anni dal Consorzio di cui lei è il direttore, e cioè l’istituzione del Soave Superiore ma soprattutto delle menzioni geografiche aggiuntive, definite con criteri scientifici grazie alla zonazione viticola che vi ha impegnati dal 1998 al 2006, sono state attuate per costruire una piramide della qualità. Che purtroppo si sovrappone a una Doc concepita al contrario per garantire una qualità medio-bassa in cui tutti i gatti dovevano apparire grigi. La scelta che sono convinto abbiate fatto, di strappare il Soave di eccellenza dall’abbraccio mortale del Soave mediocre è meritoria, ma le difficoltà che dovrete superare mi fanno temere che la vostra sia una missione quasi impossibile.
E a questo punto, augurandole di riuscirci, sono io a ringraziare lei, caro Lorenzoni, per avermi spinto, che la sua garbata replica, a chiarire fino in fondo il mio pensiero.

Cesare Pillon

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© Riproduzione riservata - 09/04/2018

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