In Italia In Italia Fabio Giavedoni

Raspi, chips, transgenesi? Non diciamo eresie!

Raspi, chips, transgenesi? Non diciamo eresie!

La storia della viticoltura e dell’enologia è costellata di divieti o di pratiche giudicate inopportune, ma che resistono imperterriti nel tempo. Altri invece sono stati via via accantonati.

Nel campo della critica enologica, e in particolare nelle varie descrizioni delle caratteristiche organolettiche di un vino, compaiono spesso termini bizzarri mutuati da campi molto distanti dall’enologia (qualche esempio: vino palestrato, ruffiano, che sussurra, prodotto per sottrazione di elementi, ecc.). Quasi assente il ricorso al termine tabù, anche se – lo vedremo – la storia della viticoltura e dell’enologia è costellata di importanti tabù cresciuti, ma anche demoliti, nel tempo.

Etimologia e definizione del termine

La parola tabù deriva dal termine polinesiano taboo che compare per la prima volta nella letteratura europea nelle cronache dei viaggi esplorativi del capitano Cook. Alla lettera il termine si potrebbe tradurre con “marchiato con un segno”. Taboo infatti viene usato per indicare quei simboli, segni o fenomeni speciali a cui una determinata cultura locale riconosce una particolare interdizione di sacralità, sia religiosa che profana, o di pericolosità.

La definizione della Treccani e in psicanalisi

La prestigiosa Treccani alla voce tabù riporta definizioni più ampie. La prima, più generale, recita “in etnologia e nella storia delle religioni tabù è l’interdizione o divieto sacrale di avere contatto con determinate persone, di frequentare certi luoghi, di cibarsi di alcuni alimenti, di pronunciare determinate parole”. Negli studi di psicanalisi “il termine indica ogni atto proibito, oggetto intoccabile, pensiero non ammissibile alla coscienza…”. In campo lessicale “tabù indica la tendenza a evitare certe parole o locuzioni per motivi di decenza, di rispetto religioso o morale, di convenienza sociale”. Mentre nel più largo senso figurato esso “indica cosa, azione, argomento che non si deve e non si può toccare, fare o trattare”.

Le varietà piwi, incroci resistenti alle crittogame, sono oggetto di accesi dibattiti. Nella foto la vigna di Johanniter da cui nasce il Vin de la Neu

Tabù superati….

Di argomenti che “non si dovevano o non si potevano toccare, fare o trattare” è piena la letteratura ma soprattutto la prassi quotidiana del mondo del vino italiano contemporaneo.
Alcuni sono stati per tanti anni dei tabù “assoluti”. Idee che resistevano imperterriti ad ogni discussione o revisione, salvo poi crollare clamorosamente nell’arco di un breve lasso di tempo, non lasciando dietro di sé neanche le rovine e sparendo immediatamente dall’immaginario del “vietato” o dell’inopportuno. Li chiameremo i tabù superati, ascrivibili sia al campo viticolo sia a quello delle pratiche enologiche.

Il diradamento dei grappoli non è più un tabù in vigna

Un esempio: la macerazione delle uve bianche sulle bucce

La vinificazione di uve bianche con macerazione sulle bucce è la modalità che porta a trattare in cantina le uve a bacca bianca come fossero a bacca scura, ovvero operando una vinificazione in rosso.
Una pratica che veniva assolutamente considerata un tabù a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Allora si impose – in tutto il mondo della produzione vinicola italiana – il modello del cosiddetto “vino bianco carta”, assolutamente limpido e scarico di colore. Fino a quel momento – che coincide esattamente con l’imposizione nelle cantine delle macchine pigiadiraspatrici e delle presse meccaniche – le vinificazioni in bianco che effettuavano i tanti vignaioli o contadini di tutta Italia si avvalevano della primordiale tecnica della separazione delle bucce per alzata di cappello.

….e da superare

A questi si aggiungono dei tabù attuali, solidi all’interno del mondo del vino, riconosciuti ancora come validi e da rispettare anche se quotidianamente messi in discussione – sia a parole sia nei fatti – da qualcuno che li disattende. In campo enologico sono almeno tre i tabù del passato superati e non più riconosciuti come tali in questi ultimi tempi.

La solforosa proprio non va giù

L’uso dell’anidride solforosa (SO2), che sappiamo svolgere importanti funzioni per la buona conservazione e integrità del vino in cantina, è uno dei tabù che resiste da sempre nel nostro mondo. Molti produttori hanno provato in passato, e provano ancora oggi, a farne a meno: non utilizzandola mai, e contando solamente su quella che naturalmente si forma durante il processo di fermentazione degli zuccheri, oppure sostituendola con altre sostanze (più o meno naturali) che svolgono funzioni protettive simili. In ogni caso, e nonostante sia sempre più frequente la comparsa di vini “senza solfiti aggiunti”, il tabù della solforosa resiste imperterrito nell’anima dei produttori.

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© Riproduzione riservata - 15/03/2019

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