Al professore dell’ateneo di Napoli e viticoltore in Irpinia quest’anno è andato il riconoscimento intitolato al fondatore di Civiltà del bere. A lui abbiamo chiesto di ripercorrere le tappe della carriera, la sua filosofia di vita e la visione del nostro settore
Durante la manifestazione, al termine del talk show, il prof. Luigi Moio ha ricevuto il Premio Khail, il riconoscimento intitolato al fondatore di Civiltà del bere Pino Khail e destinato a un personaggio che si è distinto nella valorizzazione del vino italiano nel mondo. Docente di Enologia dell’Università di Napoli e viticoltore in Irpinia, è tra i personaggi di spicco del panorama scientifico internazionale: già presidente dell’OIV (Organisation internationale de la vigne et du vin) nel triennio 2021-24, autore di oltre 350 pubblicazioni scientifiche e del saggio Il respiro del vino (successo editoriale da oltre 50.000 copie, in continua ristampa).
Il vino come paradigma di diversità
«Ho conosciuto Pino Khail, leggo la sua rivista da quando avevo 15 anni e frequentavo la Scuola enologica», ha detto il prof. Moio, «e ne ho sempre apprezzato gli approfondimenti scientifici e tecnici e i contributi del giornalista Cesare Pillon, dei professori Mario Fregoni, Antonio Calò, Angelo Costacurta e di tanti altri. Questo riconoscimento mi rende felice. Il vino è un’invenzione straordinaria dell’uomo e possiede il fascino proprio del vettore culturale. Ero un po’ preoccupato dei rischi che correva in questo mondo che converge sempre più verso l’omologazione di gusti e prodotti. Ma, dopo aver ascoltato gli interventi dei giovani durante il talk show, mi sento più tranquillo, con la consapevolezza che il futuro di questa bevanda unica, paradigma di diversità, è in buone mani».
Abbiamo approfittato della presenza del prof. Moio a VinoVip per intervistarlo sulla sua attività e la sua visione del mondo del vino, ripercorrendo con lui le tappe della carriera.

Prima professore, poi viticoltore e infine presidente OIV: questi i principali traguardi della sua vita professionale. Ci racconta come tutto è iniziato e si è sviluppato?
Nasco in una famiglia di Mondragone (Caserta) che vive di vino da cinque generazioni. Papà Michele è stato colui che per primo negli anni ’50 iniziò, imbottigliandolo, l’opera di valorizzazione del Falerno, il vino celebre nell’antica Roma. La mia passione è sempre stata lo studio, soprattutto matematica e fisica, ma papà voleva un figlio enologo e, non potendo sottrarmi, mi sono diplomato alla Scuola enologica, laureato in Scienze agrarie con una tesi sulle proteine del vino e un dottorato in chimica e tecnologia degli alimenti, completato in Francia. Del vino mi interessa soprattutto ciò che è sensorialmente attivo, cioè la parte biochimica e chimica che determina le sollecitazioni sensoriali durante la degustazione, ed in particolare gli aromi. Perciò, nel 1989, approdo al Laboratorio di ricerca degli aromi di Digione, dove rimango a studiare gli aromi dello Chardonnay e del Pinot noir, individuando in quest’ultimo le molecole odorose maggiormente coinvolte nel suo profumo.
Ritornato in Italia creo il laboratorio degli aromi presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli Federico II. Poi la mia carriera prosegue velocemente: divento professore universitario, presidente del corso di laurea in Viticoltura ed enologia, esperto scientifico del ministero presso l’OIV, fino ad essere eletto presidente nel triennio che ha coinciso con i festeggiamenti del centenario dell’organizzazione e con il trasferimento della sua sede proprio a Digione, dove io avevo iniziato.
Ma mi considero soprattutto un ricercatore, che nel suo percorso ha formato tanti allievi divenuti poi a loro volta ricercatori e professori, in Italia e all’estero, e creando una vera e propria “scuola di scienza del vino”. Questa è la mia vera vita… poi c’è Quintodecimo.
Oltre alla sua vita scientifica, c’è quella di viticoltore, che l’ha riportata alle sue origini. Qual è la filosofia alla base di questo progetto?
Dall’attività di famiglia mi ero allontanato per i miei studi, ma a 40 anni ho sentito l’esigenza di applicare la mia base teorica solida, realizzando ciò che avevo raccontato per anni nelle mie lezioni universitarie, e di riappropriarmi delle mie conoscenze agronomiche, perché ritengo che il vino di qualità sia un atto agricolo. Con mia moglie Laura, abbiamo scelto l’areale vocato dell’Irpinia, e abbiamo fondato Quintodecimo, acquisendo un piccolo casale e i terreni intorno, dove abbiamo impiantato le varietà più adatte al contesto pedoclimatico: Aglianico, Fiano, Greco e Falanghina. Volevo vivere con le vigne, dormendo materialmente accanto a loro, e lì ci siamo trasferiti con i quattro figli, tutti coinvolti in un modo o nell’altro nel progetto.

Con tutte le problematiche che sta affrontando il vino, dalle restrizioni legislative al calo di consumi, ecc., qual è la sua visione di questo mondo oggi?
Io sono ottimista e sognatore per natura, non riesco a immaginare un futuro senza vino, che deve però continuare ad avere un’identità sensoriale precisa, varietale, territoriale e legata all’annata. È questo il suo fascino, che lo rende un vettore culturale e modello di diversità, perché ci fa viaggiare virtualmente nei suoi luoghi di produzione. Anche i giovani sono affascinati da tutto questo.
Non è vero che c’è un allontanamento dagli argomenti scientifici, anzi c’è una sete di questi approfondimenti, come dimostra anche il successo del mio saggio Il respiro del vino che, ponendosi in modo semplice ma rigoroso, ha conquistato il pubblico. C’è piuttosto una carenza a livello di comunicazione, è qui che bisogna agire. Tutto ciò che diciamo oggi deve saper formare e fidelizzare gli appassionati di domani.
Anche gli aspetti ecologici e sostenibili sono importanti, perché i consumatori sono più sensibili agli argomenti salutistici sia personali sia per l’ambiente. Tutti dobbiamo andare in questa direzione, non può essere solo una discriminazione di marketing. Siamo tutti coinvolti, ma bisogna agire tenendo conto che il clima è cambiato e sta incidendo sulla disponibilità di acqua, altro grande problema che l’uomo deve affrontare in modo scientifico. Per esempio, si può lavorare sulla selezione di cultivar che accumulino meno zucchero e mantengano maggiormente l’acidità, sullo studio di portinnesti resistenti alla siccità, sulla diffusione delle varietà di vite meglio adatte in territori ad alta vocazionalità. Infine bisogna continuare a fare vini di altissima qualità negli areali storici di produzione che hanno reso celebre il vino in tutto il mondo.