In Italia In Italia Matteo Forlì

Il Monferrato celebra la sua identità vinicola diffusa

Il Monferrato celebra la sua identità vinicola diffusa

Tante anime ma grande unità d’intenti nella prima edizione di Monferrato Wine Festival – Monferrato Identity. Assaggi, incontri e confronti al Castello di Costigliole d’Asti per promuove e tutelare la Barbera e i suoi fratelli.

In pochi altri posti d’Italia le radici della vite sono piantate nella cultura e nella comunità come nel Monferrato. Anche solo a sfrecciarci in auto, villaggi e castelli medievali paiono boe in una cartolina riempita da un mare di vigneti. Accanto alla Barbera, vero tratto di tutto il Monferrato, esistono numerosi altri vitigni autoctoni di assoluto prestigio, che danno origine a una biodiversità rara.
Un’identità diffusa e policroma, fatta di uomini e tradizioni contadine, che ha ispirato la prima edizione di “Monferrato Wine Festival – Monferrato Identity”. Incontri, confronti e degustazioni hanno modellato la neonata manifestazione, ospitata nelle sale del castello medievale di Costigliole d’Asti, col timbro del Consorzio Barbera d’Asti e vini del Monferrato.

Promozione e valorizzazione

«Il nostro compito più importante», spiega Filippo Mobrici, presidente uscente del Consorzio (ereditato dal neoeletto Vitaliano Maccario), «è quello di valorizzare, attraverso le attività di promozione dei vini, il lavoro dei viticoltori, che danno vita alle eccellenze vinicole che conosciamo. Non solo la bottiglia in quanto prodotto finito, ma tutta l’opera svolta a monte deve trovare il giusto riconoscimento. Tutto questo nel segno di un’unione, ma anche di una valorizzazione, delle sfaccettate realtà del nostro territorio». Un impegno quest’ultimo testimoniato dai 70 anni di attività consortile, passata dal rappresentare 7 aziende nel 1946 (quando si chiamava Consorzio per la difesa dei vini tipici Barbera d’Asti e Freisa d’Asti) alle 404 attuali con le loro 13 denominazioni.

Una diversità piantata nei suoli

Questa multiforme espressività spunta dai suoli su cui la Barbera e gli altri vitigni del Monferrato vengono coltivati. Strati che risalgono a oltre 2 milioni di anni fa, quando il mare si è progressivamente ritirato dall’attuale Pianura Padana, rimodellando i connotati del paesaggio e disegnando le colline che oggi lo caratterizzano.
Terreni poveri di sostanze organiche e spesso aridi d’estate, che si possono distinguere in due tipologie principali: le terre bianche e le sabbie astiane. Le prime, più antiche, sono diffuse nel canellese, nell’area sud-astigiana, in quella alessandrina e nel casalese. Danno vita a vini corposi, cromaticamente più concentrati, più longevi e sono adatti a lunghi invecchiamenti. Le sabbie astiane, diffuse prevalentemente al centro del Monferrato astigiano a destra e sinistra del fiume Tanaro, sono sparse su colline più ripide e marcano vini meno acidi e più immediati.

L’impronta della cooperazione sulla Barbera d’Asti

Probabilmente coltivato nel Monferrato fin dal tempo dei Romani, anche se i primi documenti che certificano l’impianto delle viti di “berbexinis” risalgono al Medioevo, il Barbera (maschile il vitigno, femminile il vino) è l’anima del territorio e il nome che lo ha reso celebre nel mondo. Nella Docg Barbera d’Asti, tra le più legate alle antiche tradizioni contadine e rappresentative dell’areale, si può produrre in 116 comuni in provincia di Asti e di 51 comuni in provincia di Alessandria. Una zona vastissima e multiforme: 4.142 ettari, secondo i dati 2021, da cui si spremono 149.689 ettolitri di vino (19.958.627 per dirla in bottiglie). In una produzione che ha saputo evolversi nel tempo la cooperazione ha oggi un ruolo significativo, tanto che le 18 cantine sociali comprese nel consorzio trasformano quasi il 50% del prodotto complessivo della denominazione.

Il Nizza vuole darsi i suoi cru

Premier cru di fatto della Barbera d’Asti, il Nizza è nato nel 2000 come sottozona della versione Superiore (assieme a Tinella e Colli Astiani); è poi diventato Docg a sé stante nel 2014. Prodotto in 18 comuni, prende il nome dal fiume che li bagna, il Rio Nizza (e non come comunemente ritenuto dal Comune di Nizza Monferrato). È gestito da un’associazione che riunisce 51 aziende, di cui 5 cooperative, che ha scritto di proprio pugno la sua carta vocazionale e «scelto di sconvolgere il modus operandi del vino, tracciando una linea comune e lavorando di concerto per promuovere ed elevare una denominazione», ha specificato Stefano Chiarlo, presidente dell’Associazione produttori di Nizza. «Il Nizza è stato un sogno, una scommessa di un piccolo gruppo di produttori, che ha codificato in un disciplinare una pratica da tempo seguita per le Barbera importanti. Dalle rese per ettaro, sotto i 70 quintali, all’uso di vigne vecchie fino agli affinamenti più lunghi in cantina». Per la precisione: 18 mesi di cui 6 obbligatori in legno, che diventano 30 e 12 per la versione Riserva.
Da un pugno di pionieri oggi gli associati sono 83, molti dei quali produttori di Langa e nomi internazionali che hanno scommesso su questo territorio. Stili, zone di provenienza e versioni (che includono i Riserva) hanno arricchito l’espressività dei vini e tracciato il prossimo passo; “l’ufficializzazione dei cru della tipologia, oggi menzioni geografiche aggiuntive, grazie alle delimitazione delle nuove mappe sul modello fatto per Barolo e Barbaresco”.

La carica del Ruchè

Simile evoluzione qualitativa è quella che sta investendo il Ruchè di Castagnole Monferrato. Doc dal 1987, Docg dal 2010, è in fretta diventata uno dei vanti della zona: una piccola denominazione che va di fretta. Questa varietà ha trovato il proprio habitat ideale su terreni calcarei, asciutti e ben esposti che esaltano il suo carattere semi aromatico. Oggi l’area abbraccia sette comuni astigiani (Montemagno, Grana, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo, Viarigi e naturalmente Castagnole, che gli presta il nome) ma il Ruché era finito nel dimenticatoio all’inizio del ‘900.
La rinascita è partita negli anni Settanta grazie alla riscoperta fortuita di un parroco illuminato, Don Giacomo Cauda, ribattezzato il “Dom Pérignon del Monferrato”, che ne riprese la produzione negli anni Sessanta dopo averne ricevuti alcuni filari come dote parrocchiale a Castagnole. Da allora la crescita è stata continua. Gli ettari vitati sono passati dai 95 del 2011 ai 205 attuali, la produzione da 450 mila bottiglie a 1 milione e 100 mila. Gli imbottigliatori, in molti casi giovani e giovanissimi, sono 39; la maggior parte sforna appena 5/6 mila bottiglie e tre aziende da sole fanno la metà del totale.

Un vino “naturalmente moderno”

Rispetto a quello dolce che vinificava Don Cauda e di cui parla bene Veronelli, anche il vino è cambiato molto. Il Ruché è un vino “naturalmente moderno, profumato e piacevole, sia nelle sue declinazioni più giovani e immediate, sia nelle versioni Riserva, che ambiscono a durare nel tempo”, come dice il presidente dell’Associazione produttori di Ruché, Franco Cavallero.
Macchina da zuccheri, e quindi da alcol (non è raro che tocchi il 15,5%), grazie alle moderne tecnologie è diventato versatile e attuale. Dà vita a espressioni secche, morbide, strutturate e decisamente aromatiche (rosa e spezia sono i descrittori tipici), giocate sull’equilibrio tra alcol e tannino vista la naturale carenza di acidità.

Foto di apertura: il Monferrato Wine Festival – Monferrato Identity si è svolto nel castello medievale di Costigliole d’Asti © AB Comunicazione

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© Riproduzione riservata - 20/06/2023

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