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Ezio Rivella: i rossi. Da mamma autoctona e papà internazionale

Ezio Rivella: i rossi. Da mamma autoctona e papà internazionale

 

Ezio Rivella è il presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino. Enologo di grande fama, ha trascorso gran parte della sua carriera alla Castello Banfi in veste di amministratore delegato.

Molte delle previsioni fatte 10 anni fa sono centrate ancora oggi. Eppure sono cambiati il mondo e il mercato. Dieci anni fa eravamo nel grande boom, che ha fatto assaporare il periodo d’oro nella storia del vino. Il rosso tirava molto, e tutto lasciava prevedere un futuro vinicolo tinto di rosso: i polifenoli, gli antiossidanti, la cui benefica efficacia sulla salute era stata affermata e conclamata fin dagli anni Novanta, assicuravano un notevole vantaggio sul richiamo al consumo. Allarmatissimi erano i produttori di vini bianchi, che organizzavano convegni e noleggiavano scienziati per assicurare credibilità alla propria produzione, di cui si paventava la drastica riduzione.

Come ciascuno di noi sa, le cose sono andate ben diversamente e sono stati i vini rossi a sentire la crisi molto più dei bianchi, che hanno mantenuto prezzi e quantità di vendita. Previsione sbagliata, e conseguente meditazione di buon senso, valida in agricoltura come in tutte le altre attività: non bisogna mai accodarsi, nelle produzioni, su quello che fanno tutti!

RIVELLA

Ezio Rivella

Ridurre troppo l’alcol impossibile e sbagliato

Uno dei temi molto dibattuti è l’eccessiva ricchezza alcolica degli attuali vini, principalmente rossi, ma anche bianchi. Ai tempi in cui il vino era “la bevanda” si producevano vini di 9-10 gradi; 12-12,5% vol. li contenevano solo i grandissimi vini: basta guardare i disciplinari Doc stilati negli anni Sessanta! Oggi, invece, contenuti alcolici del 13-14 e anche 15% vol. sono abituali nelle produzioni mondiali.
È uno stile di vino che ci è stato imposto dai californiani, da Robert Parker e dalle classifiche di Wine Spectator. Siamo passati dai vini che si consumavano a pintoni alle bottiglie, poi al bicchiere, e poi addirittura a qualche sorso, ma il vino deve impressionare subito con l’intensità dei profumi e dei sapori, altrimenti è una bevanda banale.
Anche i maestri francesi hanno dovuto adeguarsi al mercato: i grandi châteaux di Bordeaux in qualche decennio hanno aumentato due gradi di alcol, di molto l’intensità del colore, diminuito del 30% l’acidità totale, a tutto vantaggio della morbidezza (e tutto questo senza bisogno di alcuna modifica di disciplinare, a riprova che già 100 anni fa sapevano bene ciò che era importante e ciò che non lo era).
Noi, dopo aver condotto per anni aspre contese sulle produzioni di mosto concentrato MCR, aver riempito le cantine di concentratori, battaglie sullo zuccheraggio e quant’altro, abbiamo scoperto che bastava tagliare una percentuale di grappoli sulla pianta di vite per aumentare tutte le concentrazioni e il grado alcolico. Siamo così tornati a produrre i vini come i Romani migliaia di anni prima, così forti che bisognava annacquarli nel servizio (da cui il verbo “mescere”) per renderli potabili. Si parla ora della necessità di produrre vini meno alcolici e delle tecniche di estrazione parziale dell’alcol, cose alla moda in questo momento.
Ma il vino dealcolizzato sarà qualitativamente alla pari con quello intero? Probabilmente no: l’alcol etilico è uno dei costituenti più buoni del vino, ed è anche il solvente che tiene in soluzione una gran quantità di sostanze positive per la qualità, polifenoli compresi. Quindi il vecchio modo di valutare il grado alcolico come aspetto positivo della qualità di un vino non era destituito di fondamento. A condizione che fosse prodotto naturalmente, e non solo arricchito. Il carattere qualitativo più importante da ricercare in un vino è l’eleganza e l’armonia: la percentuale alcolica ottimale si colloca tra il 13% e 14% vol. Il contenuto alcolico “zero” non ha senso, perché non funziona; già negli anni Settanta la Seagream aveva cercato di lanciare un vino completamente dealcolato (per distillazione sottovuoto), ma non ha mai avuto successo. Per i vini giovani e freschi, il sistema più facile per pasteggiare a vini leggeri è quello più semplice e antico: l’aggiunta di acqua! Per i vini importanti, il giusto contenuto di alcol è quello che assicura lunga vita.
Un aspetto da ricordare nella valutazione dei vini, soprattutto rossi, è quello di non confondere l’intensità dei sapori con la qualità. Certi vini “mangia e bevi” possono impressionare il consumatore poco accorto, ma solo quando la concentrazione si accompagna con l’equilibrio e l’eleganza siamo di fronte a un vino importante.

Assemblaggio, arma vincente

Ci sono i patiti della costante ricerca degli autoctoni per avere caratteri distintivi da propagandare come unici. Purtroppo però questi caratteri sono poco conosciuti dai mercati per cui, a stento e dopo molto tempo, si riesce ad acquisire piccolissime nicchie. Non si tratta poi di un patrimonio tutto italiano giacché tutti i Paesi di tradizione viticola abbondano di migliaia di vitigni differenti, sedimentati nel tempo.
I vitigni a grande diffusione, specifici della nostra viticoltura, che si sono già affermati nella tradizione (Barbera, Nebbiolo, Lambrusco, Sangiovese, Montepulciano, Nero d’Avola, Cannonau, Primitivo, Aglianico, Negramaro, ecc.), costituiscono già la base delle nostre denominazioni. In alcune aree di viticoltura più recente questi spesso si mescolano agli internazionali (Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah). L’importante è avere successo sul mercato e l’assemblaggio rappresenta una grossa arma per caratterizzare un brand.
A proposito di brand, continua il dilemma: puntare sulla Doc o sulla marca? È indubbio che una Do valida, che è dotata di notorietà e di presa sul mercato, assicura maggiormente un quadro di certezze per il produttore. All’interno della Do poi, la marca può diventare un rafforzamento, cosa a cui la Cantina deve puntare, oltre a rifuggire da criteri di standardizzazione per acquisire invece una “personalizzazione” del proprio vino.
Purtroppo le Doc che contano, sui mercati internazionali, sono poche; le altre sono relegate a meccanismi burocratici che spesso complicano solamente la vita ai viticoltori.
Dagli eccessi di impiego del legno (l’entusiasmo degli anni Ottanta), siamo passati a campagne contro la barrique, colpevole di snaturare il gusto.
Il giusto ovviamente sta nell’equilibrio: il legno non deve prevalere, ma deve avere svolto la sua funzione di miglioratore. Il cattivo uso e gli eccessi del passato non devono indurci a pensare che si tratti di una pratica sbagliata: per i vini da invecchiamento, di lunga conservazione è tecnica indispensabile. I vini rossi di pronta beva non ne hanno bisogno, anche per motivi economici, perché si tratta di un trattamento molto oneroso.

Qualità anche a costi bassi

La qualità è una conquista che si ottiene in conseguenza di una filosofia produttiva che, prima in vigneto e poi in cantina, applica tutta una serie di accorgimenti che portano ad avere la differenza. La conquista della qualità non discende mai dai disciplinari, ma è il risultato di un costante impegno produttivo. La qualità è applicabile e declinabile con ogni stile di vino. Un vino da pasto per consumo quotidiano, anche di basso prezzo, può essere di buona qualità nella sua tipologia. La qualità non è comparabile, se non all’interno di una stessa categoria di prodotto.
Se parliamo di valori assoluti, è chiaro che il riferimento va ai prodotti di maggior pregio (e prezzo più elevato). La crisi ha portato a un calo dei consumi a spese dei segmenti medio-alti ma, paradossalmente, non è diminuito l’interesse per i vini cult perché rappresentano i vini da investimento.
Come dovrà essere il vino rosso nel 2020? Buono e piacevole, invitante, giustamente alcolico, con un bel colore. Insomma avvincente, per una competizione che sarà sempre più accanita.

 

Cosa aveva detto nel Duemila

«Il vino sarà colorato, corposo, strutturato, morbido, fine ed elegante. Sarà prodotto da uve ben mature con rese unitarie basse. Saranno sempre presenti Cabernet Sauvignon e Merlot
e ci saranno poi vitigni autoctoni importanti per l’ancoraggio
al territorio: Sangiovese, Barbera, Montepulciano, Aglianico e Nero d’Avola. Il grande rosso del futuro: espressione dell’assemblaggio».

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© Riproduzione riservata - 29/09/2011

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