Dodici Pionieri del Made in Italy
La degustazione di Veronafiere e Civiltà del bere
A Vinitaly i big del vino italiano hanno presentato i loro capolavori spiegando come sono diventati miti ricercati in tutto il mondo – 198 persone in platea e una lunga lista d’attesa di professionisti e wine-lover desiderosi di assistere a un evento che ha raccontato un pezzo di storia d’Italia – L’omaggio al nostro fondatore Pino Khail nelle parole di Piero Antinori e di Giovanni Mantovani
«Sono stato per tanti anni il direttore di scena e oggi sono il regista di questa tradizionale degustazione, al posto di mio nonno Pino Khail». Si è aperto con queste parole del nostro neodirettore Alessandro Torcoli il tasting “I Pionieri del Made in Italy”. Venerdì 8 aprile, durante il 45° Vinitaly, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Veronafiere e Civiltà del bere hanno acceso i riflettori sugli uomini del vero miracolo italiano, coloro che hanno portato il nostro vino nel mondo. E tra questi c’è stato anche Pino Khail. Lo ha ricordato, a nome di tutti i produttori italiani, Piero Antinori.
«La scomparsa pochi giorni fa dell’amico Pino Khail lascia orfano non solo questo appuntamento, ma tutto il mondo del vino», ha detto il marchese Antinori. «Pino Khail è stato per 40 anni al servizio del vino italiano; ha fondato con grande passione e competenza una rivista, Civiltà del bere, e una casa editrice che oggi trovano continuità familiare. E quest’ultimo aspetto è tipico di un imprenditore illuminato qual era. Tutti noi produttori abbiamo conosciuto il suo stile, la sua educazione, l’innata signorilità, la modestia, la discrezione, e queste doti ci hanno portato ad avere una grandissima stima di lui e di quello che ha fatto per il settore. Per primo è riuscito a riunire attorno alla sua Civiltà del bere un gruppo di imprenditori, superando gli individualismi, lo spirito anche di reciproco sospetto che esisteva tra noi. L’amicizia che grazie alle sue iniziative si è poi sviluppata ha creato i presupposti e messo nel terreno quei semi che hanno dato frutti oggi sotto gli occhi di tutti». Poi, sfidando davvero la commozione, ha concluso: «È come se Pino fosse qui e mi sembra quasi di vederlo che mi guarda con aria un po’ severa dicendo: “Il tuo tempo è scaduto, ora tocca a un altro”. A nome di tutti i produttori siamo convinti che la strada iniziata da Pino, il lavoro che ha fatto in questi quarant’anni, sarà brillantemente continuato anche in futuro».
Anche Giovanni Mantovani ha voluto rendere omaggio al fondatore di Civiltà del bere: «Questa è la degustazione di Pino Khail, quella che ci ha aiutato a organizzare quando abbiamo strategicamente ripensato il Vinitaly. Il titolo del tasting di oggi era stato scelto proprio con Pino. Ogni primavera, ogni Vinitaly, lui dimostrava d’essere un pioniere». E a nome della Fiera di Verona sono state consegnate ad Alessandro Torcoli e alla redazione di Civiltà del bere le preziose bottiglie celebrative dell’Unità d’Italia realizzate da Vinitaly.
Venendo al tasting, cui hanno partecipato 198 professionisti e wine-lover, il primo a salire sul palcoscenico del Vinitaly è stato Ettore Nicoletto, amministratore delegato di Santa Margherita, “gentilmente rubato” per qualche momento ai festeggiamenti della Casa vinicola in occasione dei 50 anni del Pinot grigio e Impronta del Fondatore, Pinot grigio Alto Adige Doc 2010 è il vino che ha portato in assaggio. «Il Pinot grigio ha segnato una tappa importante nella storia della nostra azienda e in quella dell’enologia del Belpaese», ha detto Nicoletto. «Il suo successo nacque da due intuizioni: la prima quando la Santa Margherita si diede l’obiettivo di produrre un bianco di qualità e di rottura rispetto agli altri esistenti e individuò in Alto Adige il territorio ideale scegliendo il varietale che meglio esprimeva le caratteristiche di freschezza e frutto che andavamo cercando». Fino a quel momento il Pinot grigio veniva vinificato con le bucce; furono gli enologi di Santa Margherita a sperimentare per la prima volta la vinificazione senza buccia ottenendo così un prodotto sapido e fragrante che negli anni ha sempre incontrato il favore dei consumatori. Nicoletto racconta poi della seconda intuizione decisiva: «Avvenne nel 1979 quando il nostro attuale importatore, Tony Terlato della Terlato Wines International, venne in Italia alla ricerca di un bianco innovativo e in un ristorante si imbattè nel nostro Pinot grigio. Decise che era quello giusto per gli States. Il suo accordo con noi dura ancora oggi». Il vino porta con sé in modo molto evidente le caratteristiche del terroir: ventilazione, temperature relativamente basse con forti escursioni termiche ideali per il ciclo vegetativo del Pinot e per valorizzare le componenti aromatiche, gli elementi di sapidità e di mineralità che poi si ritrovano nella bottiglia.
Gianni Zonin gestisce oltre 1.800 ettari di vigna in tutta Italia costituendo il più importante produttore privato in termini di vigneto, come ha detto Alessandro Torcoli presentandolo. Al tasting ha portato una delle ultime creazioni: Aquilis, Sauvignon Friuli Aquileia Doc 2009. Esordisce raccontando del suo primo viaggio e sembrano davvero tempi lontanissimi: «Era il 1961 quando sono andato per la prima volta negli States, con un aereo a elica a quattro motori che faceva un rumore infernale, per visitare il mondo vinicolo americano. Trascorsi tre settimane intense nella East Coast, andai in California e in Napa Valley, ma rimasi assai perplesso. Tornando dissi a mio zio: “Forse tra cent’anni si parlerà di vino americano, perché se continuano così faranno davvero poca strada”. Invece di strada ne hanno fatta molta». Uno dei momenti chiave della storia della Casa Vinicola Zonin è stato l’acquisto di Barboursville Vineyards in Virginia. «Quando spedii lì un aratro dall’Italia mi presero per un folle. Oggi abbiamo creato una delle migliori aziende dell’East Coast», ha raccontato con soddisfazione il Cavaliere del lavoro fermandosi a riflettere anche sulle difficoltà della distribuzione: «Ogni quinquennio ci ritrovavamo con un nuovo distributore e per evitare intoppi di questo genere abbiamo fondato la Zonin Usa. Questo ha contribuito al successo dei nostri vini negli States oltre che poi in molti altri Paesi: Giappone, Corea, Inghilterra e Australia. Credo che entro i prossimi due anni la Casa Vinicola Zonin arriverà a esportare il 70% delle etichette». Gianni Zonin precisa come Aquilis rappresenti un’altra scommessa vinta dalla sua famiglia: «Oltre a quella di Aquileia c’erano altre zone dove si potevano ottenere bianchi di grande qualità, come il Collio ad esempio. Ma noi avevamo bisogno oltre alla qualità anche di fare numeri adatti all’esportazione; dunque abbiamo preferito Aquileia dimostrando che quella terra, naturalmente vocata ai rossi, era anche luogo adatto ai bianchi».
Dai bianchi ai rossi con la Falesco. Ha precisato Alessandro Torcoli: «L’azienda è giovane rispetto alle pluricentenarie casate che sono presenti oggi. È presentata però da uno degli enologi più noti al mondo che ha consulenze ovunque: Riccardo Cotarella». Il vino in questione è il Montiano 2007, Merlot Igt Lazio ideato con suo fratello Renzo. «Non possiamo essere considerati pionieri del vino in senso temporale perché la nostra Cantina è nata nel 1979», ha detto Riccardo Cotarella, «ma ci riteniamo pionieri motivati dalla volontà di non rassegnarci a ruoli di comparsa», e il suo discorso punta subito sulla collocazione geografica della Falesco: in Umbria, ma al confine con il Lazio. «Appartenere a un territorio considerato “non vocato” ha condizionato prima la vita di mio padre e poi la mia. Chi comprava il nostro Orvieto bianco lamentava sempre il fatto che quel vino non fosse toscano. Ma il Padre eterno non poteva aver fatto del confine geografico il confine della qualità e ho deciso che lì sarebbero nate grandi etichette; quello sarebbe stato il nostro laboratorio di sperimentazione». Cotarella racconta poi il suo incontro con chi lo ha aiutato a far conoscere la Falesco, primo fra tutti Leonardo Lo Cascio. «I miei primi viaggi negli States non sono stati pionieristici come quelli di Zonin, ma in un certo senso deludenti perché le migliori espressioni degli enotecari quando io arrivavo con la famosa borsetta e con i miei Orvieto erano: “Sì, va bene, è un vino senza difetti”. E questa per me era una grande offesa, senza difetti è l’acqua». Da lì a oggi di strada ne è stata fatta tanta e, come ha sottolineato Cotarella: «Il Montiano con le sue note vulcaniche è espressione della mia terra e la dimostrazione che, salvo pochissime zone in Italia davvero non vocate, il vino di qualità può essere fatto quasi ovunque».
Restiamo in Umbria, ma allontanandoci un po’ dal confine, e andiamo a Torgiano. Chiara Lungarotti ha presentato il Rubesco Riserva Vigna Monticchio, Torgiano Rosso Riserva Docg 2005. Dietro di lei, sullo sfondo, appare un’immagine di suo padre Giorgio con Robert Mondavi all’inizio degli anni Ottanta. Dice Chiara: «Erano molto amici… è stato mio padre a far conoscere l’Umbria nel mondo. Dopo la Seconda guerra mondiale trasformò l’azienda agraria di famiglia in una casa viticola specializzata e il 1962 fu il primo anno del Rubesco; nel 1964 arrivò il Riserva Vigna Monticchio». Chiara racconta della capacità di suo padre di guardare lontano: «Ha cominciato dall’Inghilterra, poi ha proseguito con gli Stati Uniti. Ricordo sempre il racconto di una degustazione alla cieca di italiani e francesi organizzata dal nostro importatore del tempo. Ebbene, i vini italiani ne risultarono vincitori. Da quel momento cominciò la grande fortuna sul mercato americano». Chiara elenca anche le molte cose in cui la Lungarotti si è sentita pioniera: il museo del vino a Torgiano, il resort Le Tre Vaselle e il Banco d’Assaggio. E conclude con una sintesi di quello che per lei e per la sua famiglia rappresenta il Rubesco: «potenza ed eleganza».
«Il marchese Leonardo Frescobaldi è uno di quelli che trascorrono più giorni all’anno all’estero che a casa», dice Torcoli presentando il produttore e il suo vino Mormoreto, Igt Toscana 2007. «I miei fratelli ed io iniziammo presto a essere operativi in azienda: Vittorio era responsabile della parte produttiva e finanziaria, Ferdinando era concentrato sul mercato italiano e io, unico scapolo, fui caldamente invitato a dedicarmi a quelli esteri», esordisce con grande senso dell’umorismo il marchese. «Negli anni Settanta il vino italiano era rappresentato oltreconfine da pochissime Case vinicole e soprattutto non c’era conoscenza del territorio d’origine; quest’ultima fu per me una grande difficoltà dato che la Frescobaldi produceva vini differenti da diverse aziende agricole e quindi era un po’ complicato spiegarlo agli importatori che amavano concentrarsi su un nome, al massimo due. Ci sono volute pazienza ed energia, ma i risultati sono arrivati». E parlando del Mormoreto lo descrive come una bottiglia che rappresenta al massimo la toscanità: «Porta con sé meravigliosa freschezza e tenace vitalità oltre che ciò che per noi è più importante: stile ed eleganza».
Albiera Antinori ha spiegato uno dei simboli indiscussi del made in Italy: il Tignanello, Igt Toscana 2007: Sangiovese in prevalenza (80-85% a seconda delle annate) con un bell’apporto di Cabernet Franc e Sauvignon. «Era la fine degli anni Sessanta. Nel Chianti Classico la produzione vinicola era più improntata sulla quantità. Il Sangiovese aveva dei bei problemi: spesso scarico di colore, con acidità alta e tannini molto nervosi. Non c’era neppure la tecnologia perché la microbiologia era cosa all’epoca poco conosciuta. Ebbene, mio padre, mio nonno, Giacomo Tachis e il professor Émile Peynaud decisero che era arrivato il momento di mettere un punto a capo e dare una svolta. Fu individuato l’appezzamento più bello della tenuta, scelto per poter curare in maniera quasi maniacale delle vigne così da aiutare il Sangiovese che negli anni è sempre rimasto la base del Tignanello. E il Tignanello, la prima annata è stato il 1971, ha segnato una strada riconoscendo al mondo intero l’importanza del terroir. Il Tignanello è stato il grande ambasciatore del terroir della Toscana centrale».
Dopo un mito, un altro mito che si presenta da solo: Sassicaia, Bolgheri Sassicaia Doc 2005. Nicolò Incisa della Rocchetta inizia subito col mettere i puntini sulle i: «La storia del Sassicaia parte nel 1944 e il vero creatore è stato mio padre, non io. La mia famiglia è di origine piemontese, di Rocchetta Tanaro, ed era appassionata di vino, in special modo di Barbera, il principale vitigno. Inoltre un prozio di mio padre che ha vissuto nella metà dell’Ottocento e che ha lavorato per l’amministrazione austriaca è passato alla storia come uno dei primi ad avere una collezione ampelografica importata dalla Francia con oltre 300 varietà di viti ed era molto considerato dai vivaisti francesi». Il marchese prosegue raccontando le avventure del padre che aveva cercato di impiantare Pinot nero in Piemonte, si era poi trasferito a Roma e si era dedicato all’allevamento dei cavalli da corsa. Alla fine della Guerra giunse a Bolgheri e, come racconta il marchese: «Gli tornò l’idea fissa di fare vino e impiantò il Cabernet Sauvignon in una zona che fino ad allora era considerata non vocata alla viticoltura. Siamo stati tra i primi a ridurre la produzione a circa 60 quintali di uva a ettaro (quelli abituali erano 150). Per 20 anni il Sassicaia è rimasto un esperimento a carattere familiare. Non pensavamo affatto di metterlo sul mercato. Chi lo assaggiava ci diceva talvolta che sarebbe stato un vino senza alcun futuro». Nicolò Incisa della Rocchetta torna indietro nel tempo, alla fine degli anni Sessanta, quando la vigna era di circa mezzo ettaro. «Dieci anni dopo abbiamo raggiunto i quattro ettari e la produzione è diventata un po’ esuberante per un consumo domestico così abbiamo deciso di commercializzarlo grazie all’aiuto di mio cugino Piero Antinori, una persona che era molto ben introdotta nel mondo del vino e che ringrazio pubblicamente». A questo poi si è aggiunta la collaborazione con Giacomo Tachis che per 40 anni è stato il nostro consulente. L’annata 2005 è stata definita “classica” dal marchese: «Si sente l’eleganza che è ciò che noi ricerchiamo nel vino».
Un salto in Irpinia, ad Atripalda, una zona della Campania che senza la famiglia Mastroberardino sarebbe stata solo un puntino su una carta geografica. Guadagna il podio Piero Mastroberardino con il suo Radici, Taurasi Docg 2006. «Negli ultimi 40 anni la mia famiglia ha partecipato a tutti gli eventi del vino italiano nel mondo, ma ho voluto andare ancora più indietro nel tempo. Era la fine dell’Ottocento, eravamo certamente pionieri per l’Irpinia. Angelo Mastroberardino, il mio bisnonno, aveva visto delle possibilità commerciali in Francia e nelle Americhe. E ci aveva visto giusto dato che nel giugno del 1912 mio nonno Michele scrive al papà chiedendogli il permesso di fare un viaggio in treno in America provando a esplorare le comunità italiane in queste città e trovare opportunità commerciali; oppure la cronaca minuziosa che fa nel 1921 di un viaggio in America Latina a bordo di un piroscafo per andare alla ricerca di un altro, disperso, che portava un carico dei nostri vini». Piero Mastroberardino parla anche del padre Antonio e di come abbia difeso tenacemente la viticoltura irpina con Aglianico, Fiano e Greco. Radici ne è l’espressione più riuscita.
Ed ecco un profeta del Barolo, uno dei vini più amati nel mondo. «Lo si trova nelle carte dei ristoranti di ogni dove; è un girovago come Pio Boffa che presenta il suo Barolo 2006 e sta ad Alba solo durante la vendemmia», ha introdotto Alessandro Torcoli. «Nel 1881 il mio bisnonno è stato uno dei primi pionieri a credere nelle grandi potenzialità che il Nebbiolo coltivato sulle colline di Barolo e di Barbaresco poteva rappresentare nel panorama enologico italiano e mondiale. E ci hanno creduto tutte le generazioni che lo hanno seguito. Io ho avuto una grande fortuna imprenditoriale: un padre fermo e duro che rappresentava la tradizione, ma che aveva intravisto in me la passione che lui stesso mi aveva trasmesso. A 16 anni invece di mandarmi al mare con gli amici mi spedì per tre mesi in California a casa di Robert Mondavi, grandissimo maestro. E sono lieto che in sala oggi ci sia Michael Mondavi». Pio Boffa con grande umiltà ricorda di come, pur non non facendo molto a livello comunicativo negli anni Sessanta, aveva già una buona immagine nel mondo. «Bastava muoversi», dice Pio ricordando divertito come gli veniva sempre dato del bôgianèn che in Piemontese connota una persona che non si muove mai. «Proprio questo mi ha spinto a viaggiare per il mondo smitizzando l’idea che il Barolo fosse un vino che andava tenuto in cantina per occasioni talmente particolari da non renderlo mai adatto a essere stappato. Il Barolo inoltre aveva un altro problema: a causa dei suoi tannini irruenti non veniva immediatamente compreso e amato come molti altri grandi vini del mondo». Nel tempo il Barolo si è adeguato maggiormente a quelli che erano i gusti dei consumatori, ma non è mai stato snaturato: è sempre Nebbiolo in purezza. Il Barolo 2006 è stato definito da Pio “classico piemontese” che non porta in etichetta l’indicazione del vigneto di provenienza perché il vecchio modo di fare Barolo era quello di mettere insieme le uve di vigneti di differenti provenienze per poter dare nella bottiglia di Barolo tutte le caratteristiche delle diversità di terroir. «Quando sento parlare di Barolo base o, peggio, di Barolo regular, soprattutto all’estero per quei Baroli che non hanno l’indicazione del vigneto in etichetta, non sono contento».
Dal Piemonte si torna in Toscana con Castello Banfi e il Poggio all’Oro, Brunello di Montalcino Riserva Docg 2004. «La Banfi è l’azienda che con la sua visione in stile americano ha saputo dare una notorietà mondiale al Brunello di Montalcino», ha detto Alessandro Torcoli presentando la vulcanica Cristina Mariani-May, contitolare dell’azienda. «Abbiamo iniziato molti anni fa come importatori», ha detto rinunciando all’italiano e scusandosene simpaticamente. «Ma la mia famiglia aveva un sogno: diventare produttrice di vino. Grazie all’amicizia tra mio padre ed Ezio Rivella questo sogno è potuto diventare realtà: produrre e portare Brunello di Montalcino in tutto il mondo. E per la nostra Cantina l’educazione al vino, il far conoscere il territorio di Montalcino negli Stati Uniti ha avuto un’importanza fondamentale. Castello Banfi è stato un progetto nato da zero: c’è stato un forte impegno in agronomia; con l’aiuto delle università e del professor Scienza, sono stati scelti i terreni e le esposizioni migliori per garantire una produzione d’eccellenza». Il Poggio all’Oro è il top della gamma di Banfi. Nasce solo dalle annate migliori, tanto che dal 2000 al 2010 sono arrivate sul mercato soltanto due annate.
È il momento dell’Amarone. Costasera Riserva, Amarone della Valpolicella Classico Doc 2005 di Masi Agricola è la novità di un grande classico, come ha precisato Alessandro Torcoli. L’affermazione è subito chiarita da Sandro Boscaini: «Nel 1866 Verona e il Veneto si uniscono all’Italia dopo anni di turbolenze politiche. Ma un valore è sempre rimasto fondamentale: l’importanza della tradizione secolare, produrre vini da uve appassite. Il fenomeno dell’Amarone, vino moderno dal cuore antico, oltre che bandiera italiana all’estero, è partito da qui. Il vino è stato reinventato tecnicamente senza tradirne la storia secolare. Siamo inoltre davanti a una delle massime espressioni di vino di territorio. Il successo d’immagine e commerciale dell’Amarone inizia dopo la Seconda guerra mondiale, ed è negli anni Sessanta e Settanta che la Masi intuisce come l’Amarone potesse essere la nuova frontiera dei vini veronesi. Tra la fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta l’Amarone è protagonista di una rivoluzione tecnica che lo fa diventare da un “piccolo Porto” a un vino moderno». Alle spalle di Sandro Boscaini scorrono delle immagini storiche. Una di queste è quella del primo Gruppo Tecnico Masi che è stato fondamentale per la rinascita dell’Amarone, vino che è stato definito da Wine Spectator il “gigante gentile”. «E la sua forza è l’illusione di dolcezza», ha aggiunto Sandro Boscaini precisando che Masi ha cinque Amaroni ciascuno con la propria caratteristica. «Quello che degustiamo oggi è qualcosa di nuovo perché è uno dei pochi Amaroni Riserva e inoltre c’è l’apporto di un’uva interessantissima, l’Oseleta. Insomma siamo al cospetto di un Amarone post-moderno così come l’ha definito Jansis Robinson: non è solo un grande Amarone, ma è un grande vino rosso in sé e per sé». E sullo sfondo scorre una foto di Sandro Boscaini con Bill Gates, un grande estimatore dell’Amarone Masi.
E infine il figlio del vento, il Ben Ryé, Passito di Pantelleria Doc 2008 presentato da José Rallo di Donnafugata. «Ecco il sole della Sicilia e del Mediterraneo», esordisce José e, neanche fosse una rockstar, la sala scoppia in un applauso. «Donnafugata è un marchio giovane, nasce nel 1983, ma la mia è una famiglia garibaldina e l’azienda di famiglia fornì vino a Garibaldi quando sbarcò a Marsala; ecco anche perché siamo qui a festeggiare il made in Italy. L’azienda nasce dalla volontà irrefrenabile di mio padre e di mia madre che portava i pantaloni e si recava in vigna a ordinare ai suoi lavoranti di andare contronatura e buttare a terra più della metà della produzione delle loro piante. Siamo stati, in questo, pionieri. In quegli anni la Sicilia era sconosciuta ai consumatori e conquistare la fiducia di un importatore straniero era un’impresa. I miei genitori giocano le armi della fantasia: scelgono un nome, Donnafugata, che era evocativo e ricordava il Gattopardo, il romanzo più tradotto nel mondo. Poi si pensò a un prodotto che fosse di grande innovazione per creare un nuovo stile mediterraneo volto a esaltare profumi e freschezza per sconfiggere il pregiudizio del vino della fascia del sole come caldo e stanco. E nacque il Ben Ryé». Il primo Vinitaly di José fu quello del 1987 e narra di come nessuno straniero sapesse dove si trovava la Sicilia né di cosa fossero Nero d’Avola e Catarratto. «Mia madre ebbe l’idea illuminata di piantare vitigni internazionali da usare in blend con gli autoctoni e questo servì a sdoganare la Sicilia facendo capire che è il territorio che conta e non solo il vitigno». Oggi Donnafugata è presente in 60 Paesi e ha un sito internet che parla nove lingue, il Vigna di Gabri bianco è stato protagonista di un fumetto manga tra i più famosi del Giappone e il Tancredi si può bere al teatro dell’Opera di Tokyo. «Ben Ryé è una creatura di Donnafugata perché il Passito non era certo questo quando siamo arrivati a Pantelleria. In lui c’è tutto quello che avevamo imparato in tema di vini bianchi eleganti. Si tratta di una viticoltura eroica: l’alberello pantesco è piantato in una conca, è sotto al terreno e bisogna chinarsi per lavorarlo: le uve raccolte a metà agosto vengono stese sui graticci al sole e al vento per l’appassimento e i nostri uomini diventano baby sitter di questi grappoli che vanno accuditi per 20 giorni. L’uva passa viene poi sgrappolata a mano e i chicchi buttati nel mosto in fermentazione. Pensate a quanto lavoro manuale c’è ancora, nel 2011 dentro questo vino». José termina raccontando di un momento magico accadutole pochi mesi fa in Francia a Perpignan, quando le è stato proposto di stappare un Ben Ryé 1992: 19 anni di vino. «Un pochino tremavo», confessa. «Ma apriamo la bottiglia e ci troviamo davanti a una meraviglia, un’esplosione di gioia. Questo è il Ben Ryé».
In sala il figlio di Robert Mondavi, Michael Mondavi. Da suo padre quasi tutti i produttori italiani sono andati a imparare qualcosa. Alessandro Torcoli, salutandolo pubblicamente, lo invita a spiegarci come mai corressero tutti da suo padre. «Noi diventammo la Robert Mondavi nel 1966 e per me è stato un onore crescere insieme a molti dei produttori che sono qui oggi. Ma California e Napa sono giovani, noi non abbiamo la vostra storia e la vostra esperienza. Nel 1974 mio padre mandò me e mio fratello in Italia per farci comprendere cosa fosse il vino italiano. E quando mi chiese quale fosse la cosa più importante che avevo imparato, io gli dissi con convinzione: “Tutti mi avevano detto che i migliori vini d’Europa erano i francesi, ma i vini migliori sono fatti in Italia perché lì ci sono i suoli, il clima e la passione”».
E, mentre scrosciano anche gli applausi in sala, chiediamo qualche commento ai giornalisti stranieri presenti. I pareri sono univoci: tutti davvero entusiasti. La londinese Linda Johnson Bell di The Wine Lady.com commenta: «È stato davvero emozionante poter ascoltare il racconto di 12 grandi big del vino italiano che hanno portato la loro passione e il loro impegno nel mondo». Harshal Shah di Sommelier India ha definito la degustazione “esemplare” e fondamentale per comprendere davvero il valore del vino italiano e lo svedese Karl-Axel Svens-son è andato ancora un gradino più in alto definendola “stellare”: «Davanti a me la storia del vino italiano. Una grande emozione».
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© Riproduzione riservata - 07/06/2011