In Italia In Italia Marco Berti Quattrini

Diario di un aspirante sommelier (ovvero, la parola a un extraterrestre) – 2ª puntata

Diario di un aspirante sommelier (ovvero, la parola a un extraterrestre) – 2ª puntata

Un collega giornalista, specializzato in tutt’altra materia, ha appena iniziato a frequentare un corso Ais e condivide con i nostri lettori le sue impressioni da appassionato (ancora) inconsapevole. È inquietante osservare come nello scorrere del suo racconto si manifesti progressivamente la trasformazione antropologica dell’homo oenologicus.

“C’è un tempo anche per l’umami… c’è un tempo per tutto!”. Parole che con un po’ di pioggia avrebbe potuto benissimo pronunciare anche Rutger Hauer. Ma siamo lontani dai bastioni di Orione e la circostanza è decisamente meno filosofica. Scavalcata l’ironia dell’astrazione, la frase ha un senso, anche se pronunciata durante un corso per aspiranti sommelier. Non perché rappresenti la sintesi di ore e ore di dottrina, ma piuttosto perché senza quegli insegnamenti sarebbe impossibile decifrarne il senso.

Non sarà mai più come prima?

Un passo indietro. Le prime quatto lezioni del corso di 1° livello Ais sono alle spalle, ormai viticoltura ed enologia non hanno più segreti. Conosco (per sommi capi) come si alleva la vite e come si fa il vino; ora è il momento di imparare a capirlo. Sin dalla serata introduttiva, la primissima, ci hanno ripetuto che quelle di degustazione sarebbero state le lezioni più importanti del corso. Ci hanno garantito che dopo queste tre serate il nostro approccio con il vino sarebbe cambiato radicalmente. Nel mio immaginario saremmo passati da beoni zoomorfi a raffinati laboratori organolettici. Un rito eno-antropologico in piena regola, uno di quei momenti che portano con sé consapevolezza ma anche un po’ d’inquietudine. Viene infatti da domandarsi cosa si perde e cosa si guadagna in questo passaggio. Bere sarà ancora un piacere o tutto questo osservare e misurare toglierà qualcosa? In fondo “l’ignoranza è la madre dei sensi beati”.

Non avrai altra scheda all’infuori di me

Freno le domande e rimando le riflessioni edonistico-bruniane. La lezione infatti entra subito nel vivo con un momento che potremmo definire da Monte Sinai: è giunto il tempo della scheda analitico-descrittiva. Si tratta dell’equivalente Ais delle tavole di Mosè, della stele di Rosetta, della Bomba di Turing e del cappello parlante di Harry Potter. Tutto in un unico sacro foglio. Un A4 fitto di riquadri che ospitano le 117 inviolabili definizioni. È suddiviso idealmente e graficamente in tre parti, una per ogni senso: prima la vista, poi l’olfatto e infine il gusto.
Il significato di ogni termine appare chiaro. A parte “epireumatico” e “varietale”, sono tutti vocaboli di uso comune, come ad esempio “limpido” o “cristallino”. Il difficile è stabilire con precisione dove ne finisce uno e dove ne inizia un altro. Quando è “limpido”? Quando è “cristallino”? Un vino rosso è “carminio” o “granato”? Quei termini che nella vita comune usiamo spesso come sinonimi qui sono segmentati da confini precisi. Il nostro insegnante (plurimedagliato sommelier con pedigree internazionale) ci guida letteralmente parola per parola attraverso una nuova attribuzione di significato: impariamo la lingua del vino. Forse sarebbe meglio dire una delle lingue del vino, quella AIis, ma al mio livello mi pare immodesto sollevare questioni semantiche.

Come i detective

Ora ogni parola quindi è (dovrebbe essere) un preciso giudizio tecnico o qualitativo. Sensi affilatissimi però non bastano per comprendere un calice. Anche misurando con giustezza tutte le definizioni della scheda, si è solo all’inizio. Assaggiamo vini e a ogni sorso, a ogni descrizione, mi è chiaro che mancano altri due imprescindibili elementi. Il primo è l’esperienza, perché la valutazione non può essere assoluta, ma ha bisogno di riferimenti e di riscontri. Ogni valore deve essere confrontato con le sensazioni che altri vini hanno lasciato nella nostra memoria. Il secondo è lo studio, tantissimo studio. Per sapere che un colore, un profumo e un sapore corrispondono a quel vitigno o sono frutto di determinate scelte di cantina, bisogna studiare moltissimo ed essere in grado di collegare tutti gli indizi.

Una meravigliosa complessità

Riassumendo: bisogna affinare i sensi, dare il giusto nome alle sensazioni, fare tanta esperienza e aggiungere più vini possibili alla cantina della nostra memoria. La degustazione è decisamente meno poetica di quando immaginassi e comprendere un calice è molto più simile a un rebus che a una rivelazione. La degustazione è in un certo senso un feticismo da osteria, ma nello spazio di un sorso racchiude al tempo stesso spensieratezza e grave complessità. Questo scaccia i miei dubbi edonistici, perché nella mia personale mini-filosofia la complessità è un valore che aumenta il piacere. Chi tesse le lodi dei piaceri semplici, il più delle volte, lo fa perché non comprende quelli più complessi.
E in questa meravigliosa complessità, in questo percorso per arrivare ad abbracciarla, ho capito che “c’è un tempo per tutto”. Ogni dettaglio si svela agli occhi, si apre al naso e si scioglie in bocca. Ogni indizio ha una sua forma, una peculiare importanza e un suo preciso momento per essere rivelato. Se parliamo di gusto, per esempio, percepiamo prima il dolce, poi il salato, l’acido, l’amaro e alla fine, proprio alla fine… “c’è un tempo anche per l’umami”.

Foto di apertura: il sommelier visto da © Doriano Strologo (rielaborazione grafica di A. Chiappa)

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© Riproduzione riservata - 24/11/2023

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