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Cosa sono le dark kitchen e perché spopolano nell’era Covid

Cosa sono le dark kitchen e perché spopolano nell’era Covid

Laboratori “senza ristorante” pensati unicamente per il delivery. Che abbattono i costi di affitto e grazie ai virtual brand sconfiggono l’elevato turnover dei locali. Pregi e difetti di un modello in forte crescita.

Il Covid ha trasformato i connotati della ristorazione. Da logiche tradizionali basate in larga parte sul servizio in sala, il settore, costretto dai mesi di lockdown e distanziamento, ha accelerato l’introduzione della tecnologia e adottato modelli fondati sul delivery e sulla gestione degli ordini da asporto. Una delle formule in rapida crescita in un contesto tanto turbolento per il fuoricasa, sul quale pesano le pesanti restrizioni per i locali previste dall’ultimo Dpcm, è quella delle cosiddette dark kitchen.

Cucine “senza ristorante”

A parte il nome, di oscuro non c’è nulla: le dark kitchen non sono una novità portata dal Covid (esistevano già in particolare nel panorama anglosassone e del Nord Europa) e l’idea alla base è semplice: si tratta di cucine senza vetrina, senza sala, senza servizio, in pratica “senza ristorante”, pensate per preparare e consegnare il “food on demand”. Tecnicamente sono una delle tipologie delle virtual kitchen – anche se per estensione spesso si usa questo termine come sinonimo – che includono anche le cloud kitchen (nei quali si affitta uno spazio a più brand che lavorano così in co-working) e le ghost kitchen (in cui un’operatore decide di strutturare un laboratorio dedicato esclusivamente al delivery, a differenza delle dark dove a essere destinata al cibo per la consegna è la cucina già esistente di un ristorante).

Un packaging evoluto e più sicuro

Si ordina da remoto su piattaforme dedicate. E dai fornelli escono piatti pronti o da “finire a casa”, corredati di istruzioni, che poi vengono recapitati a domicilio dalle piattaforme di delivery come Glovo, Deliveroo o UberEats. Naturalmente il packaging, che ormai non è più solo la scatola di cartone da pizza o hamburger ma adotta soluzioni sempre più hi-tech e igienicamente sicure come il sottovuoto pastorizzato o contenitori in grado di mantenere costante la temperatura e l’umidità, ha un ruolo centrale per garantire la qualità, esportare l’esperienza e pure veicolare un messaggio di marketing.

Dalla gastronomia al “fine dining”

Gli esempi di dark kitchen sono tanti e a tutti i livelli: dal panino all’alta ristorazione. Come Peck, gastronomia milanese di altissimo posizionamento, che ha aperto cucine virtuali e nuovi punti a Milano. O la Cook room sviluppata da Glovo, una cucina in outsourcing dove convivono note catene della ristorazione come Pacifik Poke, Pescaria e Bun Burgers. E ancora, l’ultima nata Kuiri: start-up che oltre al servizio di “kitchen sharing” offre una consulenza per avviare la propria attività. Le dark kitchen sono anche state utilizzate da brand di “fine dining”, per esempio gli stellati Contraste e Iyo a Milano, o nel settore della ristorazione aziendale, dove viene in mente Foorban. Perfino La Cucina Italiana ha attivato un servizio di consegna di piatti pronti a domicilio preparati a Milano nei laboratori frequentati dagli aspiranti chef.

Glovo ha da poco sviluppato una Cook room dove convivono Pacifik Poke, Pescaria e Bun Burgers

Risparmi su costi di avviamento e affitto

Quali sono i vantaggi di questo modello? Diversi. In primis, i minori costi di avviamento dell’attività. Poi c’è l’abbattimento delle spese d’affitto: un laboratorio non deve essere necessariamente in una zona centrale o commerciale (con canoni schizzati ormai alle stelle) perché il suo compito non è attrarre la clientela “di passaggio”. La natura low cost e altamente modulabile del business model offre poi la possibilità di gestire un turnover rapido, l’ideale in questi tempi di enorme incertezza.

Virtual brand antidoto al turnover

L’asso nella manica è lo sviluppo dei cosiddetti virtual brand, o linee di prodotti, con un logo e un nome proprio, studiati solo per il delivery che viaggiano su binari paralleli all’offerta tradizionale dell’operatore (che abbia o meno un ristorante fisico). «I virtual brand», spiega Guido Girasole, fondatore di Food Consulting che opera nella consulenza e nello sviluppo di nuovi format per la ristorazione, «permettono di testare la ricettività del mercato alla novità. Nel caso l’idea non riscontri il favore del pubblico si può facilmente cambiare, senza dover chiudere l’attività. Un grosso valore aggiunto in un contesto in cui il 45% dei ristoranti chiude dopo nemmeno 3 anni».

Controllo dei costi e digital marketing

L’altra faccia della medaglia è che il food cost va abbattuto e il concetto di “value for money” va calato in un contesto in cui si vende direttamente al consumatore, ma all’interno di una piattaforma. E una volta lì «distinguersi fa la differenza e dunque il digital marketing diventa essenziale», specifica Michele Ardoni, fondatore di Dynamic Food Brands che lavora con brand come I Love Poke e il Gruppo Ethos. «Le cucine virtuali possono offrire una grande risposta alle mutate condizioni sociali e puntare a soddisfare nuovi bisogni emergenti, a patto però che ci sia una visione imprenditoriale non contingente», prosegue Ardoni. «Portare parte dell’esperienza a casa del cliente è possibile, sostituire quella del ristorante no. Ma il vantaggio è che le due cose non sono in concorrenza».

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© Riproduzione riservata - 03/11/2020

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