Di padre in figlio. Il passaggio generazionale nelle grandi famiglie del vino

Di padre in figlio. Il passaggio generazionale nelle grandi famiglie del vino

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato l’articolo Alle Cantine Ferrari l’incontro sulle famiglie del vino a cura dell’Osservatorio Aub e Unicredit; oggi proponiamo il servizio di cronaca dedicato alla seguitissima degustazione “Di padre in figlio. Il passaggio generazionale nelle grandi famiglie del vino”, organizzata da Civiltà del bere in occasione del Vinitaly 2012 (e già apparso sul numero di maggio-giugno della rivista in versione cartacea).

Il tema del family business del settore enologico  risulta oggi di grande attualità e sarà al centro di un altro post: “Questioni di famiglia? Fino a un certo punto”, un approfondito focus a cura dello specialista in gestione strategica e operativa dell’impresa familiare Sergio Cimino (già presente sul numero di luglio-agosto del giornale, in questi giorni in edicola). Da segnalare, infine, un importante convegno-evento coordinato da Civiltà del bere in programma a Urbino a fine settembre. A breve saranno fornite maggiori indicazioni.

 

 

Generazioni a confronto in un evento eccezionale

Successo di pubblico e tam tam mediatico per il wine-tasting dedicato a “padri e figli”, con la partecipazione straordinaria di Renato Mannheimer. Per la prima volta è stato affrontato questo tema cruciale, con ironia e competenza. Sei grandi famiglie del vino hanno condiviso riflessioni e speranze  con 200 degustatori provenienti da 20 Paesi, che intanto assaggiavano 12 capolavori

A chi, come noi, ha alle spalle oltre trenta edizioni di Vinitaly capita sempre più spesso d’incontrare agli stand della fiera veronese i produttori che ormai conosciamo accompagnati da baldi giovani, ragazzi e ragazze, che ci vengono presentati come figli o nipoti. È la nuova generazione che avanza, che si fa conoscere all’esterno e che presto o tardi raccoglierà per intero il testimone delle aziende. Un argomento di estrema attualità che Civiltà del bere ha voluto affrontare dedicandogli la sua tradizionale grande degustazione, in collaborazione con Vinitaly, chiamando a raccontare le esperienze del passaggio generazionale sei grandi famiglie del vino italiano: Antinori, Argiolas, Chiarlo, Lunelli, Rallo e Zonin.

Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, saluta il pubblico

12 GRANDI VINI E 200 DEGUSTATORI – Spettacolare come sempre il colpo d’occhio della Sala Argento del Palaexpo affollata da duecento invitati tra giornalisti italiani ed esteri, operatori e rappresentanti istituzionali, curiosi di ascoltare le storie dai big dell’enologia italiana e soprattutto di assaggiare i loro dodici splendidi vini top che ben rappresentano le eccellenze del Belpaese. Una curiosità ancora maggiore dettata dal fatto che la degustazione è stata preceduta dalla presentazione di un’indagine sullo stesso tema commissionata da Elena Amadini, brand manager di Vinitaly alla società Ispo di Renato Mannheimer. Con l’abile regìa del nostro direttore, Alessandro Torcoli, è toccato al direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani, aprire i lavori sottolineando la tradizione consolidata di questi eventi organizzati in collaborazione con Civiltà del bere, a maggior ragione quest’anno perché «il successo d’impresa delle famiglie italiane del vino è anche il successo di Vinitaly».

GLI STUDI SUL FAMILY BUSINESS – «Credo che il futuro del vino italiano, e anche in parte della fiera», ha aggiunto Mantovani, «dipenda dal fatto che in questo grande cambiamento naturale e coerente ci sia anche una profonda evoluzione del nostro vino italiano nel mondo. Così come una capacità di comunicare, di crescere sui mercati e anche di fare prodotti d’eccellenza, come è accaduto negli ultimi vent’anni». Prima di presentare al pubblico i protagonisti della degustazione, Alessandro Torcoli ha ricordato come anche a livello universitario il tema sia molto sentito. Gli atenei di Trieste, Milano, Firenze e Palermo hanno, ad esempio, promosso un Prin (Progetto di rilevante interesse nazionale) dal titolo “Modelli di family business nel settore vitivinicolo”, concentrandosi su particolari specificità territoriali. L’obiettivo del Prin è di comprendere, attraverso metodologie di indagine sia di tipo qualitativo che quantitativo, le relazioni tra la proprietà, la governance e la direzione e la longevità delle aziende familiari. In particolare: l’impresa familiare come comunità di persone; la coesione tra i congiunti e il commitment verso l’impresa; l’esercizio del potere; la struttura della proprietà. La ricerca è tuttora in corso.

In primo piano, il giornalista ungherese Kántor Endre (Borravaló)

MAURO LUNELLI – Delle sei grandi famiglie del vino presenti, l’unica che invece di testimoniare il passaggio “di padre in figlio” lo fa “di zio in nipote” è la Lunelli delle Cantine Ferrari, non perché Mauro Lunelli non abbia figli (ne ha due), ma perché il nipote Marcello è colui che nel Gruppo si occupa più da vicino della produzione vinicola. L’intervento di Mauro Lunelli è dedicato soprattutto al ricordo di Giulio Ferrari, al quale nel 1972 ha voluto dedicare quello che è ancora oggi il vino top della Casa vinicola trentina, e alla diversificazione delle attività della famiglia (vini spumanti, vini tranquilli, grappe, acqua minerale), che vede impegnati tre fratelli della prima generazione e quattro nipoti. È seguito poi l’assaggio del Giulio Ferrari Riserva del Fondatore, Trentodoc 2001. Bollicine superlative per aprire una degustazione da sogno.

MARCELLO LUNELLI – «Non avrei mai pensato di partecipare a eventi simili per raccontare la mia vita», ha esordito Marcello Lunelli, successore dello zio Mauro nel ruolo di enologo dell’azienda per il settore tecnico-produttivo. «Mi ritengo una persona fortunata perché ho il privilegio di fare un lavoro che mi piace, per cui ben vengano anche i sabati e le domeniche lavorativi. Lo zio Mauro mi ha sempre considerato come un figlio. In famiglia siamo numerosi e quando si riceve un patrimonio del genere è difficile muoversi. La mia strategia, comunque, è sempre stata di tenere un profilo molto basso: guardare e cercare di imparare, portando innovazioni ma senza stravolgimenti. Ferrari è un marchio percepito come tradizione, famiglia, legame col territorio, e pertanto ogni azione avrebbe potuto essere potenzialmente pericolosa. Studiando però questi aspetti, io e i miei cugini ci siamo misurati in nuove sfide: export, crescita, nuovi prodotti e anche nuove aziende, come quelle in Toscana e in Umbria, dove stiamo per inaugurare la bellissima cantina progettata da Arnaldo Pomodoro». E proprio della Tenuta Castelbuono, Marcello Lunelli ha presentato in degustazione l’elegante Montefalco Sagrantino 2006.

Da sinistra, Angelo Mastai di Enogusto (rivendita vini), la musicista Cinzia Milani e Antonio Tonola del ristorante Lanterna Verde (Villa di Chiavenna, Sondrio)

VALENTINA ARGIOLAS – Con la seconda grande protagonista è stato invertito l’ordine di uscita e a prendere per primi la parola sono stati i figli anziché i padri. Valentina Argiolas, giovane e brillante esponente non solo dell’azienda di famiglia ma anche del mondo vitivinicolo della sua regione, la Sardegna, ha esordito dicendo di aver «vissuto il vino fin da piccola. Un anno dopo l’ingresso in azienda», ha aggiunto, «ho deciso di seguire le mie passioni: la comunicazione, l’immagine e l’export». Tra i suoi studi, oltre alla laurea in Economia e commercio, anche un master sulla gestione, guarda caso, della transizione del passaggio generazionale come opportunità di sviluppo. «Ho avuto la fortuna di avere in vita mio nonno Antonio fino a 103 anni, e perciò ho vissuto due passaggi generazionali. Da lui e da mio padre ho imparato i valori etici, e come primogenita mi sono sentita molto responsabilizzata. Tra i cambiamenti che ho apportato, uno dei più importanti è stato trasmettere all’esterno il valore della famiglia. Ho attuato inoltre un rinnovamento del team dei collaboratori, mentre più tardi mi hanno raggiunto in azienda anche mia sorella Francesca e mio cugino Antonio». Valentina ha poi presentato una delle ultime novità di Argiolas, l’Iselis Rosso 2010, ottimo blend di Monica, Carignano e Bovale sardo.

Il pubblico del tasting nella Sala Argento del Palaexpo

FRANCO ARGIOLAS – Franco Argiolas, da parte sua, ha ammesso che all’origine tra lui e suo padre Antonio c’era diversità di vedute su come gestire l’azienda agricola. «Lui vendeva fichi d’India», ha ricordato, «e con il ricavato comprava formaggio, pur continuando a produrre vino e olio, naturalmente da vendere sfusi». Alla fine degli anni Ottanta lui, geometra e amministratore comunale, in piena campagna di espianto dei vigneti a seguito delle politiche comunitarie, si trova a un bivio: «Estirpare le viti e con i rimborsi vivere di rendita oppure iniziare a commercializzare vino con il nostro marchio». Ed è così che con il fratello gemello Giuseppe decidono di lanciare l’azienda su basi moderne puntando a far conoscere e valorizzare i vitigni autoctoni e trovando un validissimo supporto tecnico in Giacomo Tachis. Nel 1988 nasce il Turriga, «il vino del cambiamento, simbolo della nostra terra», sottolinea Franco. E proprio con il Turriga 2007 Franco Argiolas delizia il palato dei duecento degustatori nel salone.

Dall'Ungheria, Rein Krisztián (giornalista di Monarchia Borok), Ákos Kamocsay (produttore della Maurus Winery) e Hajni Szöllósi (< 30 Hectares, rivendita di piccole produzioni vinicole)

STEFANO CHIARLO – Dalla Sardegna al Piemonte per un’altra bella testimonianza che ha per protagonista la famiglia Chiarlo. «Il mio primo ricordo legato al vino», dice Stefano Chiarlo, figlio di Michele, «risale a quando avevo sette anni: ero in vigna con mio padre che stava trattando l’acquisto di una partita d’uva quando un cacciatore maldestro lo colpì con una scarica di pallini. Il sogno del babbo era quello di acquistare terreni altamente vocati per produrre grandi cru di Barolo, Barbaresco e Barbera». Diplomatosi nel 1990 alla Scuola enologica di Alba, Stefano Chiarlo inizia subito a lavorare in cantina e in vigna con passione e intraprendenza. «Il cambio generazionale, sia per me, sia per mio fratello, che si occupa della parte commerciale, è avvenuto in modo soft», dice, «cercando soprattutto di svecchiare il modo di comunicazione del Piemonte. In questa ottica rientra anche la realizzazione del Parco La Court, così come l’amore per i viaggi e per le persone che ci ha trasmesso nostro padre. Due cose mi danno ancora emozione: quando il consumatore mi dice “finalmente conosco il produttore, e il vino che di solito bevo trasmette la personalità di chi lo produce”, e quando sappiamo di mettere in bottiglia il frutto della natura del territorio». Frutto che Stefano esprime facendo assaggiare al pubblico l’Albarossa Montald 2009, da uve Albarossa (incrocio di Nebbiolo e Barbera).

Sunny Yeoh (Lagkawi General Supplies Sdn. Bhd., Malaysia), Gary Goh e Ann Kwan (Bacardi-Martini Singapore Pte Ltd)

MICHELE CHIARLO – Il racconto di Michele Chiarlo parte da lontano: figlio di viticoltori, diplomato enologo ad Alba nel 1955 e subito ad aiutare il padre piccolo produttore a Calamandrana, nell’Astigiano. «Nel 1960 vado in Francia, conosco la Borgogna e vengo a conoscenza della fermentazione malolattica!», esordisce. «Una scoperta che per me si rivelerà importante per il miglioramento dei miei vini». Il suo orizzonte si allarga alle Langhe, prima Barolo, poi Barbaresco e quindi l’amata Barbera. Ed è grazie soprattutto alla Barbera d’Asti, che Michele Chiarlo nel corso dei decenni ha migliorato e valorizzato, che la sua azienda si è fatta conoscere al pubblico internazionale, tanto che l’export incide oggi per il 75% sulla produzione complessiva. «La mia filosofia», dice ancora, «è sempre stata quella di acquistare vigneti solo in posizioni ottimali, perché solo così è possibile ottenere vini di alta qualità». La riprova i presenti l’hanno avuta assaggiando il cru La Court, Nizza Barbera d’Asti Superiore 2009, un vino che nasce dal vigneto dell’omonima collina in zona altamente vocata per questa varietà.

Antonio Stopper (Stoppervini), l'agronomo Pietro De Luca, il delegato Ais Cilento Maria Sarnataro e il sommelier Domenico Capogrossi

ALESSIA ANTINORI – Antinori è una delle più antiche dinastie del vino nel mondo e oggi, a rappresentare la ventiseiesima generazione, sono tre donne, Albiera, Allegra e Alessia, figlie del marchese Piero. Ed è proprio Alessia Antinori, la più giovane, la tecnica di famiglia, laureata in Viticoltura ed enologia, ad accompagnare il padre in questa degustazione veronese. «Nostro padre non ci ha mai obbligato ad occuparci di vino», ha esordito, «però ci ha trasmesso la sua passione. Per noi è una grande responsabilità continuare la tradizione Antinori, ma allo stesso tempo è un’opportunità e uno stimolo e tutte ci siamo fatte un’esperienza sul terreno. Benché tecnica, per vari anni mi sono occupata del settore commerciale soggiornando per quattro anni in Asia e per due negli Stati Uniti. Recentemente, dopo aver avuto un figlio, ho deciso di tornare alla terra dedicandomi alla nostra tenuta Le Mortelle, nel Grossetano, dove operiamo con criteri di ecosostenibilità».  Di questa azienda, acquistata dalla Marchesi Antinori nel 1999, Alessia ha presentato il Botrosecco 2009, Igt Maremma Toscana, da uve Cabernet Sauvignon e Franc.

Luciano "Paolo" Nesi (patron dei ristoranti L'Opera Group), Luca Candolo (wine bar Civico 4 di Roma) e Lorenzo Toschi (Nuove Ipotesi Studio di Milano)

PIERO ANTINORI – È toccato quindi al marchese Piero Antinori, “mister Tignanello”, così lo ha chiamato il nostro direttore, portare la propria testimonianza. Prima ha voluto però ricordare la partecipazione a tutti gli eventi di Civiltà del bere al Vinitaly, rendendo omaggio all’opera di Pino Khail e ringraziando anche Alessandro Torcoli. «Anche in questo caso», ha commentato, «è stato un passaggio generazionale perfetto!». Prosegue: «Oggi la nostra azienda è molto diversa da quella che ricevetti io da mio padre Niccolò nel 1966 e, rispetto ad allora, se penso al passaggio con le mie figlie, sono molto tranquillo sul futuro». Parlando del Tignanello, il marchese Piero ha ricordato che questo vino «ha rappresentato una svolta non solo per l’azienda e per la produzione toscana in generale, ma ha anche segnato il Rinascimento del vino italianoIl Tignanello è l’anima della Marchesi Antinori», ha aggiunto, «perché incarna tradizione e innovazione nello stesso tempo». Ed è con questo vino-icona, della grande annata 2004, che Piero Antinori ha voluto deliziare il palato del selezionato pubblico in sala.

Il sommelier Marco Falconi, guida del servizio ai vini del tasting, con Josè Rallo

DOMENICO ZONIN – Da tre figlie femmine destinate a raccogliere il testimone da un padre dal nome “ingombrante”, nel senso buono del termine naturalmente, a tre figli maschi anch’essi impegnati a continuare l’opera di un altrettanto importante genitore. Domenico, Francesco e Michele Zonin, tutti già inseriti in azienda con diversi ruoli. «I gradi si guadagnano sul campo e non per diritto ereditario», ha precisato Domenico Zonin, responsabile dell’area tecnica e produttiva. «Dopo la laurea in Giurisprudenza», ha aggiunto, «ho seguito corsi di enologia a Davis e a Bordeaux facendo poi esperienze lavorative in Napa Valley e a Château Lafite. Ricordo un episodio risalente al mio primo anno di lavoro nella tenuta veneta: non ero contento del Recioto, e allora feci fare un diradamento maggiore in vigna, cosa che impressionò talmente il responsabile del vigneto che, scandalizzato nel vedere gettare vie le uve, diede le dimissioni e cambiò lavoro». Nel presentare il vino in degustazione, Deliella 2005 Igt Sicilia (Nero d’Avola 100%), Domenico fa capire come per la tenuta siciliana Principi di Butera, acquistata dalla famiglia Zonin alla fine degli anni Novanta, lui abbia una particolare predilezione.

Giuseppina Chiarlo, moglie di Michele, con la nuora Laura Botto, consorte di Stefano

GIANNI ZONIN – «Non esiste una regola nelle successioni delle famiglie», attacca Gianni Zonin. «Nella mia c’era chi voleva che facessi l’avvocato e chi l’enologo; mio padre non sapeva chi accontentare. È andata a finire che prima sono diventato enologo e poi mi sono laureato in Giurisprudenza. Ogni tanto, durante le pause caffè», racconta sorridendo, «lo zio Domenico mi preannunciava il passaggio del testimone, che però non si decideva mai a lasciare. Finché, arrivato a 75 anni, fece finalmente il grande passo. È stato importante vivere accanto a un uomo saggio come lui, anche se non era d’accordo a espandere aziende e vigneti. Decisioni che ho preso io nel tempo e che mi hanno dato ragione. Oggi ho tre figli che lavorano con grande passione e che mi rassicurano sul futuro della Zonin». Per il suo noto attaccamento alla tenuta toscana di Castello d’Albola, acquistata nel 1979, Gianni Zonin presenta in degustazione Acciaiolo 2007, blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon.

Il produttore Andrea Cecchi con Stefano Pesenti (Auchan)

GIACOMO RALLO – Prima di cedere la parola agli esponenti dell’ultima accoppiata padri-figli, interviene Renato Mannheimer sostenendo che le famiglie hanno tratto vantaggio, oltre che dalla loro genialità, anche dal fatto che il vino da alimento si è trasformato in un prodotto di qualità. «Il successo», ha aggiunto, «ha favorito le transizioni soft, grazie anche alla capacità di questi giovani». Nel caso della famiglia Rallo, le cui tradizioni vinicole risalgono alla metà dell’800, è prima il padre, Giacomo Rallo, a dare la propria testimonianza riguardo alla bellissima avventura intrapresa nel 1983 con sua moglie Gabriella Anca, esperta viticoltrice, nel progetto Donnafugata«Dopo aver lavorato a lungo negli Stati Uniti con il Marsala», ha detto, «ho voluto intraprendere la strada dei vini da pasto, proprio nel momento in cui il mercato cambiava. Il grande colpo di fortuna è stato avere due figli bravi e partecipativi, molto preparati e aperti al nuovo mondo. Una bella alchimia: io ci ho messo fantasia e coraggio, loro una maggiore capacità di analisi e metodo, mentre io, lo confesso, mi ero un po’ improvvisato. Ne è venuto fuori un processo evolutivo proficuo, dialettico e produttivo, con successi che condividiamo. Con il Mille e una Notte», ha spiegato Giacomo Rallo presentando il top dei rossi di Donnafugata, annata 2006, «ho voluto dare una percezione più vera della Sicilia, creando un prodotto che ha saputo sorprendere gli amanti del vino».

Il sommelier Marco Rancati, Gigi Brozzoni (I vini di Veronelli), Erik Klein (Empson & Co.) e il sommelier Mario Brambilla

JOSÈ RALLO – La ribalta finale è tutta per sua figlia Josè Rallo, volto e voce di Donnafugata, solare come tutto ciò che la circonda, dal sorriso agli abiti fino allo straordinario Ben Ryé, il Passito di Pantelleria che ben la identifica. «Sono andata via di casa a 19 anni per imparare l’inglese negli Stati Uniti; poi mi sono innamorata di un siciliano e ho deciso di tornare offrendomi di collaborare in azienda. Lo stare all’estero mi ha insegnato ad aprirmi al nuovo, ad avere il  coraggio di cambiare». Poi le vacanze a Pantelleria. «Perché», mi sono chiesta, «non piantarci vigneti e provare a fare un vino dolce di grande qualità?». Ed ecco il Ben Ryé 2009, che Josè Rallo presenta al pubblico con il suo inconfondibile trasporto: «È il vino che meglio mi rappresenta: una grande freschezza, solarità, vivacità, acidità, ma anche dolcezza. La voglia di abbracciare. È un vino che cresce col tempo, che dà sensazioni incredibili. Ecco, spero di essere una figlia che cresce nel tempo…». Scrosciano gli applausi della sala per Josè e per tutti i produttori delle grandi famiglie italiane del vino.

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© Riproduzione riservata - 18/07/2012

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