50 anni di storia del vino: Librandi e la missione di diffondere il patrimonio calabrese

50 anni di storia del vino: Librandi e la missione di diffondere il patrimonio calabrese

Dai primi 6 ettari del nonno Raffaele ai 232 odierni, la famiglia Librandi lavora in armonia con la terra. Il contributo di Antonio e Nicodemo nel valorizzare la tradizione fondandola su una solida ricerca scientifica.

Quando si nomina la Calabria e si pensa alla sua produzione vitivinicola risulta imprescindibile citare una delle famiglie italiane del vino più lungimiranti del panorama odierno, i Librandi: un percorso che nasce fondamentalmente come un artigianato (6 ettari circa) più di settant’anni fa, per poi trasformarsi in una realtà differente nel corso degli anni. Un progetto capace soprattutto di interpretare un territorio e di tradurre il proprio bagaglio di conoscenze, studi e sperimentazioni in un caso imprenditoriale di successo, oltre che in un’occasione di crescita e progresso per il territorio stesso.
«Papà Nicodemo ha conservato l’atto del primo ettaro di terra acquistato dal nonno Raffaele, che poi ha realizzato il sogno di metterne insieme 6, così come i suoi figli, con lo scopo di lasciarne uno a testa.
Si era ingegnato parecchio, in quanto aveva creato una rete di amicizie e di collaborazioni aperte in ambito agricolo davvero notevoli. Insomma, aveva realizzato un sogno, quello di dar vita a una proprietà, attraverso una bella squadra nel centro storico di Cirò Marina», rammenta l’attuale terza generazione della famiglia, con Paolo e Raffaele.
È proprio qui a Cirò, storia e anima della vite e del vino in Calabria, che i Librandi coltivano la vite ed è qui che, negli anni Cinquanta, la famiglia decide di allargare le attività organizzandole per l’imbottigliamento e la commercializzazione del vino. Dopo tutto questo tempo, il principale obiettivo è ancora quello di diffondere la conoscenza del patrimonio vitivinicolo calabrese, così ricco di storia e tradizioni.

La capacità di prevedere il futuro

«Zio Antonio era il primogenito e quindi da subito si era messo al lavoro col padre, creando una piccola rete commerciale, ovviamente locale. E sono andati avanti così fino agli anni Settanta, quando poi è entrato in azienda nostro padre, che era il penultimo dei figli, in un certo senso più fortunato di Antonio, avendo avuto l’opportunità di andare all’università e di laurearsi in Matematica».
Fin dalle origini l’azienda si è distinta per il suo sguardo al futuro, capace di anticipare temi importanti e tendenze, con uno spiccato interesse verso la tutela della biodiversità e la sostenibilità, ma anche per l’innata propensione e volontà di dare nel tempo sempre maggior solidità e rigore scientifico alla conduzione dei vigneti e della cantina.
«A metà degli anni Settanta nostro padre entra in società con lo zio e da quest’unione nasce a tutti gli effetti una spinta imprenditoriale di notevole successo, accompagnata da una altrettanto grande propensione al rischio. Allora il consulente enologico è Severino Garofano che rimarrà fino al 1998, per poi essere sostituito dall’attuale Donato Lanati».

La riscoperta degli autoctoni

In quel momento si punta su vitigni non certo tradizionali: Sauvignon, Chardonnay, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc e di fatto «in quegli anni nascono dei vini che poi hanno cambiato la nostra storia, come il Critone, che è un uvaggio di Chardonnay al 90% e Sauvignon al 10%, il Terre Lontane, che è un rosato 70% Gaglioppo e 30% Cabernet Franc, e soprattutto il Gravello (60% Gaglioppo e 40% Cabernet Sauvignon), ispirandosi alla tendenza dell’epoca di blend tra vitigno autoctono e internazionale».
Negli ultimi 25 anni, l’azienda si è posta come pioniere della ricerca in ambito vitivinicolo, ricoprendo un ruolo da protagonista nella riscoperta di vitigni autoctoni ormai dimenticati o perduti. Il progetto di ricerca riguardante gli autoctoni è stato portato avanti di pari passo con la crescita stessa dell’azienda ed è ancora oggi in atto.
«È stata l’armonia della nostra terra», continuano a raccontare i fratelli Paolo e Raffaele Librandi, «a suggerirci la strada da intraprendere: da una parte, la valorizzazione della tradizione con gli impianti ad alberello, i portainnesti storici e gli insegnamenti dei nostri esperti viticoltori, la cui maestria è radicata nei secoli di storia viticola del Cirotano; dall’altra, gli investimenti nell’innovazione e nella ricerca con la collaborazione dei massimi esperti del settore viticolo ed enologico, spinti dalla convinzione che un minuzioso lavoro di ricerca ci avrebbe permesso di fissare, conservare ed esaltare il nostro patrimonio viticolo»

Una gamma di vini cosmopoliti

E dunque proficue collaborazioni con Attilio Scienza dell’Università di Milano in merito alle varietà autoctone sul suolo calabrese, con Stella Grando dell’Istituto di San Michele all’Adige per lo studio del Dna, con Anna Schneider e Franco Mannini del Cnr di Grugliasco (Torino) per l’ambito ampelografico e virologico, e tanti altri ancora.
Oggi l’azienda conta 232 ettari di vigna, ha superato il traguardo dei 2 milioni e mezzo di bottiglie all’anno e vanta un export che sfiora il 50% del fatturato e che copre oltre 40 Paesi, dalla Germania agli Usa, dal Giappone al Regno Unito, passando per l’Australia, il Messico e il Brasile.
Vini altamente identitari, figli del territorio da cui provengono e allo stesso tempo, anzi proprio per questo, spiccatamente cosmopoliti: «Duca Sanfelice è la riserva, è l’alberello, è la vigna vecchia, il vino senza legno, è la purezza della nostra tradizione. Efeso e Megonio, ovvero Mantonico e Magliocco, nascono per poter sognare e recuperare queste varietà antiche che si sono perse negli anni, mentre Gravello e il Critone continuano a rappresentare da un punto di vista commerciale la nostra spinta significativa».

Foto di apertura: il vigneto a spirale di Tenuta Rosaneti, dove sono state messe a dimora 200 varietà autoctone

LIBRANDI

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© Riproduzione riservata - 28/07/2024

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