Diversamente giovane. La longevità dei vini

Diversamente giovane. La longevità dei vini

di Cesare Pillon

 

Premessa necessaria: chiedo scusa, ma il tema di questo articolo, la longevità dei vini, mi costringe a scrivere in modo diverso dal solito, facendo uno strappo alla regola numero uno che mi sono dato: quella di non esprimermi mai, quand’è possibile, in prima persona. Sono nato al giornalismo come cronista, cronista cerco di restare, e come tale scrivo (quasi) sempre in terza persona, facendo parlare i fatti, i documenti, i protagonisti, gli esperti, i testimoni. Può sembrare un espediente, ma è il modo più efficace che conosco per cercare d’essere imparziale. E allora perché non applico quel metodo anche stavolta? Perché il tema mi coinvolge troppo sul piano personale (e non solo per consonanza anagrafica). Mi spiego subito con un esempio. Se si trattasse di un articolo come gli altri, potrebbe cominciare così: “La longevità” spiega L’Enciclopedia del Vino (Boroli Editore) “è la capacità del vino di durare nel tempo con una evoluzione positiva delle proprie caratteristiche organolettiche”. Ma non posso essere tanto ipocrita da fingere che si tratti di una citazione perché quella voce, sull’Enciclopedia Boroli, l’ho scritta io. E, dato che sulla questione sono spesso intervenuto, e ho perfino polemizzato (cosa che non mi è consueta), trovo più corretto metterci la faccia, come direbbe il premier Matteo Renzi.

Quando la longevità era emblema di qualità

Fino agli anni Ottanta, comunque, eravamo tutti d’accordo, la longevità era la misura stessa della nobiltà di un vino: più era capace di sfidare le ingiurie del tempo, più era pregiato. Quel principio aveva permeato di sé anche la cultura popolare: ne ho in casa una divertente testimonianza, un’anfora che mi fu regalata tanto tempo fa, con una scritta in dialetto veneto che dice: Bevo del vecio e baso le zovene. La convinzione che la bottiglia vecchia fosse la migliore era diffusa a tutti i livelli sociali e culturali per un motivo molto concreto: il vino, fino ad allora, era stato un alimento quotidiano, e gli italiani si erano perciò abituati, pasteggiando, a berlo giovane e fresco perché si accompagnasse a qualsiasi piatto e non appesantisse la digestione, ma gratta gratta, anche perché era più economico. Quel vino facile e leggero però durava una sola stagione ed era incapace di invecchiare: perciò quando, nelle grandi occasioni o perché c’era a pranzo un ospite di riguardo, si stappava una bottiglia importante, la differenza che balzava subito agli occhi era la sua età, un’età alla quale il vino quotidiano non avrebbe mai potuto arrivare. Di qui l’equivalenza invecchiato = migliore. Non so all’estero, ma essendo l’Italia la patria dei furbi era inevitabile che qualcuno riuscisse ad approfittare della situazione. C’era, infatti, chi spacciava bottiglie nate vecchie, millantando come qualità organolettiche quelli che erano invece i guasti ossidativi della senescenza, e c’era chi metteva in commercio vini ancora verdi e allappanti con la scusa che, essendo longevi, avrebbero completato la maturazione nella cantina dell’acquirente. Che non sempre gradiva, anche perché spesso il contenuto di quelle bottiglie restava immaturo vita natural durante.

La moda del “giovane è bello”

L’inversione di rotta avvenuta una trentina d’anni fa avvalora una mia teoria personale sul modo di progredire del mondo. Io sono convinto che la storia non procede linearmente né con balzi improvvisi, ma avanza invece con andamento pendolare: eccede su un lato e poi, per reazione, va fuori delle righe dall’altro. In questo caso, difatti, si è passati da un’esagerazione all’altra, opposta: la longevità è diventata una caratteristica quasi negativa, mentre è andato alle stelle l’indice di gradimento dei vini giovani, giovanissimi, ancora in fasce. I vini giovani li bevo volentieri anch’io, ma ho sempre avuto un debole per le più complesse e intriganti sensazioni che mi fanno provare quelli stagionati, e rottamarli mi è sembrato e mi sembra un delitto. “È imbarazzante ammetterlo”, reagii perciò malignamente con un articolo una decina d’anni fa, quando il fenomeno era in pieno rigoglio, “ma nonostante la condanna senza appello della morale ufficiale, che considera tuttora una perversione farsi una bottiglia di pregio quand’è ancora impubere, come fosse Lolita, negli ultimi anni il numero di coloro che cercano deliberatamente questo tipo di piacere proibito è cresciuto in misura sorprendente”. Ma alla fin fine chi si comporta così non ha poi tutti i torti, mi ha fatto saggiamente osservare un enotecario di lungo corso, Giovanni Longo, che il mercato lo conosce bene: «I vini d’oggi», sostiene, «sono effettivamente più gradevoli da bere anche da giovani, rispetto a quelli d’un tempo. Trenta, trentacinque anni fa, i grandi rossi appena imbottigliati erano ruvidi, spigolosi, e proprio per questo era meglio tenerli a lungo in vetro perché si arrotondassero. Oggi sono morbidi e suadenti fin dal momento in cui sono messi in vendita». Verissimo, però mi chiedo: perché affrettarsi a bere quelle buone bottiglie, se tra qualche anno saranno ancora migliori? Ma poi, è nato prima l’uovo o la gallina? E cioè: sono stati i vini più rotondi a invogliare i consumatori a berli subito, oppure è stata la moda di berli subito che ha spinto i produttori a vinificarli più rotondi?

La parola agli esperti

Non è solo in Italia che c’è chi si preoccupa di quel che sta accadendo: il rischio che per accontentare le bramosia giovanilistiche dei consumatori tutti i vini diventino uguali ha indotto Jancis Robinson, autorevole collaboratrice del Financial Times, a denunciare “una certa uniformità” e il guru americano Robert Parker a dirsi preoccupato dalla nuova generazione di bevitori, che secondo lui percepiscono soltanto il sapore fruttato dell’ultima vendemmia. “Il problema è che questi vini non hanno alcuna possibilità di evolversi”, sentenzia, “e così la gente crede che il vino sia questo, punto e basta. Mi preoccupa pensare che si possa perdere la capacità di apprezzare le sfumature del vino che matura in bottiglia”. «Ma questa abilità è già stata perduta da molti», afferma Serena Sutcliffe, responsabile del settore vini internazionali presso la casa d’aste Sotheby’s. E per dimostrarlo racconta il caso di un rosso perfettamente affi nato che un suo conoscente affetto da “enololitismo” ha giudicato scadente. «In realtà, era meravigliosamente maturo», spiega la Sutcliffe, «ma la persona che l’ha assaggiato non ne gradiva il sapore. Tutto qui. Credo che volesse qualcosa di più semplice e fruttato, piuttosto che questo vino dal sapore insolito e complesso». È curioso che proprio l’intensità del sapore fruttato sia invece l’elemento con cui il critico enologico Luca Maroni valuta la qualità dei vini e realizza ogni anno un Annuario di quelli che giudica migliori, pubblicazione che riscuote vasti consensi e che ha dato un grande contributo alla diffusione del “giovane è bello”.
La teoria da lui elaborata si basa su due assiomi. Il primo è quasi un’ovvietà: più il vino è piacevole, più alta è la sua qualità. A non trovare tutti d’accordo è, invece, il secondo: il vino a più elevato tasso di gradevolezza è il vino-frutto. Lui, però, ne è così convinto che per valutare la qualità dei vini ha inventato l’Indice di Piacevolezza, basato sulla fruttosità e articolato su tre parametri, consistenza, equilibrio e integrità, misurati unicamente con strumenti
sensoriali (vista, olfatto, gusto).

Il vino vive

Il fatto è che, secondo Maroni, “con il trascorrere del tempo questi criteri qualitativi non subiscono durante l’invecchiamento in bottiglia mutazioni sostanziali”, ma entra però in gioco un fattore negativo, l’ossidazione, che aumenta l’intensità di due sensazioni spiacevoli: quella acida e quella amara. “Il trascorrere del tempo”, è perciò la sua conclusione, “determina una graduale diminuzione dell’Indice di Piacevolezza di qualsiasi vino esistente”.
Se fosse vero che il vino esprime al massimo grado le proprie doti nel momento in cui è posto in commercio e che da allora comincia la sua fase discendente, è evidente che bisognerebbe berlo il più presto possibile. Ma le cose non stanno esattamente così. Il vino non è un prodotto che muore un poco ogni giorno, ma è una creatura che vive tutte le fasi dell’esistenza, dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità alla vecchiaia, in continua trasformazione. E proprio questo è il suo fascino perché, come per gli esseri umani, la sua personalità manifesta caratteristiche diverse man mano che il tempo passa, ma non per questo meno attraenti. In realtà i profumi secondari, dovuti alla fermentazione, e i terziari, generati dall’invecchiamento, messi in sottordine dal culto monoteista del vino-frutto, non sono meno seducenti di quelli primari ereditati dall’uva. E tra i profumi primari perché emarginare gli aromi floreali, che hanno lo stesso appeal di quelli fruttati? Però il vino ti strega davvero quando tutti questi sentori si fondono, si sovrappongono, si alternano al naso e sul palato in un bouquet pieno, complesso, intrigante, ed è il vino che ha soggiornato più a lungo in bottiglia, in regime di ossido-riduzione, che può comunicare queste emozioni con maggiore intensità. Perciò non dite che è vecchio: è un vino diversamente giovane.

L’intera monografia del numero 6/2014 di Civiltà del bere è dedicata alla longevità. Per acquistarlo scrivi a store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 06/05/2016

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