Il futuro dei vini australiani

Il futuro dei vini australiani

«Il nostro obiettivo è cambiare la percezione del pubblico, che pensa solo all’Australia dal clima rovente che vende vini di poco prezzo al supermercato. Ora puntiamo a una fascia più alta e a conquistare la fiducia dei sommelier e dei consumatori raffinati, con vini sorprendenti che esprimono le zone d’origine». Questo il quadro, nettamente diverso, che potremmo trovarci davanti tra qualche anno secondo Brian Walsh, presidente di Wine Australia, e già direttore tecnico di Yalumba, la più antica Casa vinicola australiana di proprietà familiare.

Le strategie? Più qualità e territorio

Brian Walsh

Brian Walsh

Oggi l’Australia conta 65 zone viticole, delle quali (e pochi lo sanno) 30 godono di un clima più fresco di Bordeaux. Non c’è dunque da stupirsi se la metamorfosi sopra descritta dovesse riuscire. Inoltre, questo Paese ha già dimostrato di non risparmiarsi quando vuole investire in una nuova strategia di marketing, anche se l’ultima volta l’esito è stato piuttosto deludente (con finalità opposte, poiché all’epoca si puntava alla massima competitività con vini di massa onesti).

Il futuro dei vini australiani ha due nuovi obiettivi

Il nuovo piano strategico 2015-2020 prevede investimenti per 175 milioni di dollari australiani (circa 135 americani). Il principale organismo deputato al rilancio sarà proprio Wine Australia, fondato nel 2013, cioè potremmo dire a cavallo dei due diversi paradigmi strategici. Forse per questo si pone due obiettivi piuttosto ambivalenti: alzare il prezzo medio (vedi alla voce “premiumization”, di cui oggi si parla molto nell’industria vinicola) ed essere più competitivi nelle fasce di ingresso (il passato, appunto).

Il problema dello smokey taint

Sono tre le funzioni dell’organismo, che gode di finanziamenti pubblici e privati, secondo la sensata regola “1 dollaro (dello Stato) per 1 dollaro (delle aziende)”: promozione (con un tesoretto, in vero non mostruoso, di 7 milioni di dollari australiani l’anno), ricerca e sviluppo in viticoltura ed enologia (25 milioni l’anno), regolamentazione (norme interne, esportazioni, etichettatura, comprese le leggi internazionali sugli additivi nel vino). Per quanto riguarda la ricerca, molta attenzione è posta sul problema dello “smokey taint”, cioè del sentore di legna bruciata nel vino, fenomeno provocato dai numerosi incendi il cui fumo investe le vigne, ma si concentrerà anche sulle forme di allevamento più adatte alla viticoltura locale e sui lieviti per fermentazioni ad alta temperatura. Risulta evidente che i cloni citati da Walsh riguardano soprattutto le zone calde, dove ancora si produce la gran parte del vino australiano.

Vini australiani

Le12 bottiglie di vini australiani da nostri vitigni autoctoni degustate all’enoluogo di Civiltà del bere

Varietà inedite da provare

Con Brian Walsh parliamo anche del recente interesse dei winemaker australiani per i vitigni autoctoni italiani. «I produttori stanno cercando varietà più adatte al clima», conferma. «E dato che in Australia non vige un sistema di regolamentazione rigida paragonabile a quello italiano e francese, i viticoltori sono liberi di sperimentare di tutto», ma, conclude Walsh, «sinora se ne è parlato tanto, ma si tratta di una nicchia, ad eccezione del fenomeno Pinot grigio». Lo scorso gennaio, discorrendo con i produttori all’Australian Day Tasting 2016 di Londra, abbiamo però compreso che sta repentinamente cambiando la prospettiva: d’ora in poi sarà più importante parlare del luogo che del vitigno (tendenza, per dire la verità, globale), ma non è un passaggio così semplice quello di cambiare la base ampelografica di una zona, ad esempio piantare Aglianico al posto del Cabernet Sauvignon, anche se il primo risultasse più adatto del secondo.

I grandi classici

Walter Speller

Walter Speller

Ovviamente, si possono riscontrare anche nuovi stili partendo dal patrimonio più classico: lo Syrah, ad esempio, che nella Barossa (South Australia) storicamente si presenta robusto, porta in evidenza note più fresche e pepate in alcune aree fresche emergenti, come Heathcote (Victoria) o Canberra (New South Wales). E ancora, esempio assaggiato durante la giornata londinese: il Grenache, sempre di ispirazione “Rodano” e da tempo presente sul continente, che può dare vini dal colore rubino tanto chiaro da ricordare il Pinot nero, e si presenta di un’eleganza fuori dal comune.

I nostri autoctoni sopportano caldo e siccità

Il secondo Cicerone, nelle recenti esperienze australiane, è stato Walter Speller, corrispondente italiano per JancisRobinson. com che ha seguito nel dettaglio il programma Italian Grape varieties in Australia promosso dalla 21st Century/Vino, associazione che incoraggia lo sviluppo dell’enologia australiana «oltre l’approccio omogeneo che punta i riflettori meramente su una manciata di vitigni per lo più francesi, piantati ovunque, verso scelte più regionali e meditate». Stiamo parlando di una nicchia, come l’aveva definita Walsh, ma sempre più autorevole. Alcuni sono un po’ estremisti, Speller li denisce le-eld, i progressisti, particolarmente aperti alle novità.

 

Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 04/2016. Per sapere di più sul futuro dei vini australiani acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com.
Buona lettura!

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© Riproduzione riservata - 21/08/2016

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