In Italia In Italia Antonio Calò

Il Dna della vite parla di tipicità. Lo afferma uno studio del Cra-Vit

Il Dna della vite parla di tipicità. Lo afferma uno studio del Cra-Vit

La struttura molecolare della pianta è un argomento di ricerca di grande interesse. Lo dice un’analisi del Cra-Vit coordinata dal professor Calò sulla biodiversità, che ha l’obiettivo di dimostrare l’importanza di questo ambito anche per i vini di domani.

Con un “piccolo gruppo di lavoro”, nell’ambito del Cra-Vit (scusate le sigle, ma di altro non si tratta che dell’ex Istituto sperimentale per la Viticoltura con sede a Conegliano, Treviso), abbiamo affrontato da tempo il problema della sicura distinzione e caratterizzazione dei vitigni.
Siamo partiti con approfondimenti ampelografici; siamo passati a misure ampelometriche fino a registrazioni col computer di silhouette della foglia tipo; abbiamo saggiato il valore degli isoenzimi, per approdare, naturalmente, all’analisi del Dna con i microsatelliti. Fate poco caso ai termini specifici, si tratta d’analisi ormai consolidate, che non possono essere nominate diversamente e che danno informazioni sicure. A un certo punto, constatato che la distinzione fra vitigni era diventata routinaria, abbiamo spostato l’attenzione sulla possibilità di scrutare la variabilità all’interno delle popolazioni varietali e ciò, come vari altri colleghi, per vedere di distinguere i diversi biotipi, alias cloni.
È qui, allora, che entra in gioco il piccolo gruppo, formato da Angelo Costacurta, Giacomo Morreale, Stefano Meneghetti e da chi scrive. Il problema era, come vi dicevo, evidenziare con il Dna sicure differenze fra cloni, dal momento che molti ottimi tentativi di altri colleghi non sempre apparivano sicuri. Una strategia analitica messa a punto da Stefano Meneghetti, viceversa, dimostrava ottima, costante, precisa affidabilità. Con questo metodo abbiamo cominciato a indagare all’interno della variabilità di alcuni vitigni. E se gli esperimenti erano nuovi, nuovo non era il concetto di queste varianti.
Infatti, l’osservazione delle differenze di tipi all’interno della stessa varietà ha un passato piuttosto remoto, anche se poco conosciuto. Basta consultare il Trattato di Agricoltura di Columella, nell’ottima traduzione di Rosa Calzecchi Onesti per Einaudi, e andare al libro III, 9-1 per leggere: “Per quanto la natura abbia voluto che alcune varietà fossero particolarmente feraci, come la biturica e la basilisca, non può aver reso l’aminnea così sterile che su molte migliaia di piante di tale varietà non ve ne abbia essere alcuna buona produttrice… questo ragionamento è perfettamente verosimile, ma l’esperienza mi ha dimostrato che è anche vero”. Badate, questa percezione non è soltanto lontana nel tempo; implica anche sensazioni che penetrano nella mente e nella sensibilità umana.
Siamo convinti che i viticoltori abbiano seguito nei millenni innate e personali sensazioni per scegliere e selezionare i biotipi (come li chiamiamo oggi) adatti alle coltivazioni e non solo utilizzando la vista, ma soppesandoli anche con la mente e con l’istinto. Molti esempi, anche attuali, ce lo dimostrano. Permettetemi di fare un nome per tutti: quello di Ruggero Forti che abbiamo visto dialogare con le piante. Le analisi tecniche e statistiche, dopo e sovente, confermavano le sue scelte. Ora sappiamo che l’eterogeneità, all’interno dei vitigni, può essere dovuta a mutazioni e ad altre cause; sta di fatto che, per quella che chiamiamo selezione clonale, abbiamo sfruttato queste diversità, rischiando anche di impoverire una variabilità base essenziale di un insostituibile equilibrio con l’ambiente. E lo vedremo.
Per tornare, comunque, al nostro filo conduttore, prima una precisazione: quando utilizzo il termine ambiente non intendo le sole caratteristiche del clima e terreni, piuttosto un complesso di situazioni più generali nelle quali anche l’uomo con le sue azioni e la sua cultura ha un peso. Ciò chiarito, ricordo ancora che i progressi delle analisi genetiche ci hanno permesso di notare sicure differenze fra vitigni, ma difficilmente siamo scesi a livello subvarietale e questa eventuale variabilità genetica, pur essendo componente fondamentale, è rimasta con una sua natura in parte sconosciuta. I nostri esperimenti, come sopra accennato, e le nostre analisi su diversi vitigni cominciano invece, ora, a chiarire alcune affascinanti realtà.
Abbiamo constatato in modo evidente che i cloni possono essere ben distinti fra loro. Ma questo, che era lo scopo del lavoro, è diventato l’aspetto meno attraente, perché a una attenta lettura dei dati abbiamo trovato un interessantissimo legame fra i biotipi e la loro zona di origine. Seguitemi. In un primo lavoro, pubblicato su Molecular Biotechnology, abbiamo analizzato diversi biotipi, coltivati in vari Paesi, della Garnacha spagnola che è denominata Grenache in Francia e in Italia Alicante e Gamay perugino al Centro, Cannonau in Sardegna e Tocai rosso a Vicenza. Con le analisi tradizionali del Dna sono risultati, come è giusto, il medesimo vitigno. Con le nostre indagini (strategia Meneghetti), invece, abbiamo distinto i tipi spagnoli da quelli francesi e italiani. Non solo: fra quelli italiani abbiamo differenziato quelli del Centro, della Sardegna e di Vicenza. Di più: fra quelli della Sardegna abbiamo potuto separare quelli di Cagliari da quelli di Jerzu.

malvasia nera

Malvasia nera

In un altro esperimento, i cui risultati sono in pubblicazione sempre su Molecular Biotechnology, abbiamo confrontato i biotipi di Malvasia nera di Lecce e di Brindisi che ora sono considerati (e lo sono) un medesimo vitigno. Anche in questo caso quelli raccolti in provincia di Lecce si sono distinti, per il Dna, da quelli raccolti in provincia di Brindisi.
Abbiamo poi analizzato diversi cloni di Negroamaro e si sono differenziati addirittura per i Paesi nei quali erano stati reperiti; con l’unico selezionato in collina (a Ceglie Messapica) risultato il più geneticamente distante fra tutti. Ancora, abbiamo saggiato i nostri cloni di Primitivo. Qui il discorso è leggermente più lungo. Da tempo avevamo individuato nella zona di Gioia del Colle (culla di questo vitigno), con l’aiuto di Gian Vito Masi, cinque biotipi dalle caratteristiche morfologiche diverse. Li abbiamo di seguito collocati nella stessa azienda dell’Isv a Turi, dove hanno mantenuto e confermato tali individualità.

primitivo

Primitivo

Infine li abbiamo sottoposti all’analisi del Dna, di cui parliamo, in paragone con il Primitivo tipico della zona litoranea jonica e con lo Zinfandel californiano (che sappiamo è sempre Primitivo). Ebbene, ancora una volta, si sono distinti per zona di provenienza e in maniera più netta rispetto alle pur evidenti diversità morfologiche. Le tipologie di Primitivo individuate nell’areale sudorientale della Puglia sono: grappolo bifido, lungo, medio-compatto, acino medio grande; grappolo bifido, lungo, mediamente spargolo, acino medio piccolo; grappolo cilindrico, a volte alato, mediamente corto, con acino medio-piccolo; grappolo cilindrico, con piccola ala, mediamente lungo, medio compatto, acino medio; grappolo cilindrico, a volte alato, corto, acino medio, buccia molto colorata, precoce, con maggior accumulo glucidico.

malvasia istriana

Malvasia istriana

Avevamo sotto analisi anche una serie di cloni di Malvasia istriana, i cui risultati sono in pubblicazione, e qui le distinzioni sono avvenute per costitutore. Dal momento, però, che ogni costitutore aveva operato in un ambiente diverso (Friuli, Venezia Giulia, Istria) la distinzione, in fondo, è risultata sempre per ambienti.
Molti altri vitigni sono in osservazione, ma i dati finora ottenuti ci autorizzano a sottolineare una vera marcatura del Dna rispetto all’ambiente. Davvero una porta che si apre alla lettura scientifica, ricca di ricadute pratiche. Gli studi futuri ci potranno dare ulteriori verità e, forse, sorprese e farci conoscere se e come differenti ambienti possano modificare il Dna.
Ora desidero, con i miei colleghi, sottolineare la variabilità accumulata in centinaia o migliaia di anni di coltivazione e selezione dello stesso vitigno in diversi siti, con il concorso dei viticoltori. E, allora, la sensibilità, prima ricordata, torna in gioco. Come se effettivamente fra viticoltore e varianti dei vitigni, non sempre facilmente percepibili ma scritte nel Dna, si sia stabilito un dialogo che dona un senso e un valore scientifico al concetto di tipicità: importante da seguire, dalla moltiplicazione dei vitigni, fino alla loro coltivazione e vinificazione delle uve. Tipicità che sarebbe dannatamente grave perdere in un sistema assolutamente particolare, unico e sensibile come quello della vite e del vino.
Per comprendere ciò, consiglierei la lettura di Bevo dunque sono del filosofo inglese Roger Scruton. Meditiamo il  seguente passo: “Io ho imparato da Michelangelo il pathos dell’amore materno e la divinità della sofferenza; ho imparato da Mozart la speranza che trasforma la tristezza più cupa in gioia; ho imparato da Dostoevskij il perdono che purifica l’anima. Questi doni della comprensione mi sono stati dati dall’arte; ma quello che ho imparato dal vino è emerso dal mio intimo, il vino è stato il catalizzatore, anche se non la causa di ciò che ho appreso”. Leggetelo e vi accorgerete di quanto il pensiero sia coinvolto nella considerazione e rapporto col vino.

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© Riproduzione riservata - 19/08/2011

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