I birrai italiani continuano a sperimentare: è il turno della barrique

I birrai italiani continuano a sperimentare: è il turno della barrique

La grande cultura del bere nazionale è storicamente riconducibile al vino, ma da trent’anni a questa parte grazie alla sua crescita qualitativa e quantitativa, la birra, ha saputo trasformarsi in bevanda per tutti i palati, anche i più raffinati. Così, al Salone internazionale del Gusto 2010, da poco conclusosi, la bionda, a tratti, ha rubato il palcoscenico al più blasonato figlio prediletto dell’uva: il vino. Durante la manifestazione non c’è stato giorno che non sia stata aperta una finestra sul variegato mondo birrario.

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La spillatura

Un viaggio globale, che ha visto puntare l’attenzione sui tanti micro-birrifici italiani nati negli ultimi due anni, ma che non poteva non tenere in considerazione i maestri della tradizione come Belgio, Germania, Repubblica Ceca, e Stati Uniti. Volendo fare un parallello tra la variegata realtà nostrana e le consolidate esperienze europee ed internazionali risalta subito all’occhio il fermento, è il caso di dirlo, degli oltre 300 micro-birrifici italiani. In controtendenza a Paesi come la Francia, che ha visto ridurre drasticamente la schiera dei produttori, passati da circa otto mila nel secolo scorso a qualche decina oggi. Altra peculiarità del nostro movimento birraio artigianale è la grande libertà di espressione, che dà adito a sperimentazioni che sembrano non conoscere limiti, grazie alla mancanza di una consolidata tradizione alle spalle. Nel Belpaese, dunque, dagli anni Ottanta a oggi l’evoluzione della bionda è stata incalzante. Prima la rossa, poi la scura Guinness, fino ai doppi malti e alle recentissime etichette al frumento e alla frutta, sempre più protagoniste del mercato. L’aggiunta di frutta ai luppoli ha origini antiche, che, tanto per cambiare risalgono al Belgio, dove è classica l’infusione di ciliegie o frutti di bosco nella tradizionale lambic. Anche in questo caso i birrai italiani non si sono fatti sfuggire l’occasione, cogliendo la possibilità di utilizzare la vasta eterogeneità di frutta dei nostri territori, tra cui figurano molti presidi Slow Food. Tante le varietà presentate: da una classica kriek belga a una birra prodotta con pesche di Volpedo.

Ma l’ultima tendenza proviene dagli Stati Uniti, dove da un paio d’anni, i migliori birrifici offrono le cosiddette birre in barrique. In una terra di grandi vini come la nostra, era quasi inevitabile che prima o poi i produttori di birra italiani iniziassero a sfruttare la disponibilità di botti usate. L’ultima frontiera della sperimentazione prevede, infatti, di lasciar riposare i luppoli all’interno delle barrique, creando così delle contaminazioni che lasciano a dir poco stupiti.

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Alcune birre presentate

È il caso della Mummia, l’ultima nata in casa Franzosi, a Montegioco, in provincia di Alessandria. Una birra particolarissima, non filtrata, dal colore limpido e senza schiuma, molto simile per consistenza e ph ad un vino fermo. Ma soprattutto con un accentuato retrogusto vinoso, dovuto alla maturazione di 18 mesi in una barrique dove c’era Barbera e alla rifermentazione in bottiglia con lieviti da vino. Per chi cerca invece un compromesso tra nettare di Bacco e birra non può non assaggiare Italian Strong Ale del birrificio Toccalmatto di Fidenza. Dal gusto particolarmente luppolato e secco, anche lei viene passata in barrique, per sette mesi, dove c’era grappa. Gradazione alcolica di un certo rilievo (10% vol.) che però lascia in bocca un sano warming senza eccedere. A dimostrazione della sua vicinanza al vino, durante la degustazione al Salone del Gusto, è stata servita scaraffandola, per mantenere indietro i lieviti che possono inquinare la delicatezza di questa birra. Scendendo verso sud bisogna fermarsi in una delle terre votate al vino per dna, Montepulciano, dove Moreno Ercolani del Birrificio L’Olmaia fa riposare prima dell’imbottigliamento la sua Chri Ghost (il fantasma della “Christmas Duck”, altra sua etichetta) per quattro mesi in una barrique di Brunello di Montalcino Talenti da 225 litri. 750 etichette da 500 ml, ne sono già state vendute 500, e tappo a macchinetta, in modo tale che la birra all’interno, che non è rifermentata, rimanga bevibile anche dopo la prima apertura. Unica nel suo genere, Sedicigradi, di nome e di fatto. Prodotta dal Birrificio Birra del Borgo, il suo profumo e il suo colore ambrato scuro ricordano le cantine di Jerez. Riposa in barrique di rovere francese per 12 mesi. Per concludere il nuovo trend delle birre barriquate non si può non citare uno dei pionieri dei micro-birrifici artigianali italiani in questi anni. È Teo Musso, che da Piozzo (Cuneo) sta esportando la sua Baladin in tutto il mondo. Oggi produce una decina di etichette, ma continua a sperimentare, così com’è avvenuto al Salone del Gusto di Torino, dove ha presentato Xyauyù, una birra da meditazione, affinata per 18 mesi in botti di Barolo, molto densa, alcolica (13% vol.) e con una nota acidula che riequilibria il residuo zuccherino.

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La degustazione

La ricerca, dunque, anche in campo birrario del concetto di terroir ha permesso di identificare oggi almeno tre ceppi che manifestano un qualche legame con il vino. Il primo è quello riconducibile all’uva. I casi sopra citati ne sono un esmpio. Un secondo riguarda coloro che utilizzano lieviti tipicamente da vino, come il Saccharomyces Bayanus, molto impiegato nella spumantistica. Infine l’utilizzo del legno che in realtà è sempre stato legato al mondo di malti e luppoli da quando, i Galli, ne riempivano le botti. Con l’avvento delle birre in barrique, ormai, la sfida al cugino vino è totale e molto probabilmente le etichette maturate in legno saranno un nuovo importante filone del made in Italy brassicolo.

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© Riproduzione riservata - 03/11/2010

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