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Giove: rivoluzionario Sangiovese di Romagna

Giove: rivoluzionario Sangiovese di Romagna

Il meglio della produzione di collina dà vita a un vino di qualità capace di affrontare le sfide dei mercati internazionali – Controllo minuzioso delle uve e un blend rigoroso coordinato dall’enologo Vittorio Fiore – L’obiettivo è arrivare a 1 milione di bottiglie e tra un anno uscirà la Riserva

Chi ha detto che gli italiani sono troppo individualisti per mettersi insieme e fare sistema? Ci sono mille esempi, nel mondo del vino, che sembrano dar ragione a chi la pensa così, però al Vinitaly è successo qualcosa di diverso, qualcosa che se non è un miracolo gli assomiglia parecchio: 34 piccoli produttori, unitisi volontariamente in Consorzio, hanno presentato le prime bottiglie di Giove, un rivoluzionario Sangiovese di Romagna Doc Superiore che si poteva realizzare solo mettendosi tutti d’accordo.
Chi compie un miracolo non può essere una persona banale, e Vito Ballarati, che di questo prodigioso evento è l’autore: lombardo di nascita, chimico per formazione, inventore per inclinazione, è un imprenditore tessile che dal 1998, ritiratosi con la famiglia sui colli forlivesi sopra Castrocaro Terme (Forlì-Cesena), ha concentrato idee, mezzi finanziari ed energie nella creazione e nella gestione di un’azienda vitivinicola, Villa Bagnolo, che si è fatta in brevissimo tempo un bel nome. Ma se la sua impresa ha successo, perché ha sentito il bisogno di riunire altri 33 vignaioli in un Consorzio?
«Uno dei motivi lo dice il nome che abbiamo dato alla nostra società cooperativa: Consorzio appennino romagnolo», spiega. «Tutti i soci hanno infatti i loro vigneti nella fascia preappenninica della Romagna: il nostro Sangiovese di collina lo abbiamo chiamato Giove per differenziarlo da quello di pianura. Giove è un nome breve, che si incide nella memoria ed è molto più facile da pronunciare nelle altre lingue e questo è un vantaggio per noi, che intendiamo puntare sull’export».
Chiediamo perché. Risponde Ballarati: «È difficile vendere il Sangiovese fuori dalla Romagna. Le nostre aziende  sono troppo piccole, non dispongono di una produzione sufficiente per inserirsi nei mercati fuori dalla zona d’origine, e quindi scendono in campo l’una contro l’altra nel loro territorio, dove la lotta concorrenziale, con i Sangiovese di pianura, si combatte all’ultimo euro. Il nostro progetto è molto semplice: creare con il Giove un Sangiovese che si possa portare fuori dalla Romagna in quantità tale da poter soddisfare le esigenze dei mercati d’esportazione. Perché l’operazione riesca, però, dev’essere un vino di eccellenza, un vino in cui i vignaioli del Consorzio fondano il meglio delle loro produzioni».

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Ma concretamente quali garanzie di qualità offre il Giove ai consumatori italiani ed esteri? Sotto il profilo agronomico, i vigneti da cui è ricavato, tutti situati sulle pendici dell’Appennino, dall’Adriatico fino a Imola, sono tra i più vocati della Romagna. In quanto alle operazioni di cantina, a esse sovrintendono addirittura cinque enologi, in rappresentanza dei cinque territori in cui sono situate le aziende associate: Rimini, Forlì, Cesena, Imola e Faenza. Questa commissione tecnica è coordinata da un super-enologo: Vittorio Fiore, che del Rinascimento del vino italiano è stato uno dei massimi protagonisti. È Fiore il responsabile dell’assemblaggio dei vini da cui scaturisce il Giove. Gli domandiamo in che modo realizzi il blend. «L’aspetto più innovativo dell’operazione», spiega, «è che le uve vengono vinificate direttamente dai singoli soci nelle proprie cantine, a differenza di quanto avviene di norma nelle classiche strutture vitivinicole cooperative».
Il meccanismo di selezione del prodotto è assicurato da un disciplinare tanto semplice quanto rigoroso. All’inizio dell’anno viene chiesto a ogni Cantina consorziata di indicare vigna, ettolitri e tipologia di vino che intenderebbe conferire per realizzare il Giove. Gli enologi valutano i campioni e giudicano se i vini proposti sono all’altezza del progetto. Ricevuto il via libera, i campioni conferiti vengono dosati per stabilire le percentuale da utilizzare. È così che si elabora l’assemblaggio che darà vita al Giove definitivo. Sulla base di indagini di mercato appositamente svolte, il consiglio d’amministrazione del Consorzio, che è presieduto da Ballarati, è in grado di stabilire quanto Sangiovese di Romagna Doc Superiore sarà possibile commercializzare con il marchio consortile Giove, e fondandosi sui controlli organolettici e sulle analisi di laboratorio praticate per mettere a punto il blend potrà definire quanto vino dovrà richiedere, cantina per cantina, per comporlo.
Vittorio Fiore ci tiene a sottolineare che l’insolita scelta di far vinificare a ogni associato la propria quota di Giove è stata presa perché molto importante sotto il profilo qualitativo. In che senso? «Una cosa», risponde, «è vinificare uve di qualità rigorosamente selezionate in recipienti di piccole o medie dimensioni da ognuno dei singoli produttori, in modo da mantenere intatte le sfumature caratteristiche di ogni parcella del terroir; altra cosa è operare in strutture enormi, dove il concetto di selezione qualitativa delle uve e di esaltazione delle loro peculiarità territoriali non possono trovare giusta rilevanza per motivi di organizzazione».
Fiore non nasconde la sua soddisfazione per l’architettura del progetto: «È articolato in modo efficace per affrontare il paradosso del Sangiovese romagnolo di collina cioè quello di un prodotto di eccellenza che non ha trovato finora adeguata soddisfazione economica. Ma ritengo che l’aspetto più innovativo del Giove sia di nascere da una cooperativa organizzata in modo tale che nessuna delle Cantine che vi aderiscono perda la propria identità».
Se a tutto questo si unisce, per i soci, il vantaggio di poter essere seguiti passo passo da una commissione tecnica di prim’ordine e di fruire quindi dei consigli e dei suggerimenti di un enologo dell’esperienza e del prestigio di Fiore, si può capire meglio come mai si sia verificata sui colli romagnoli una conversione tanto improvvisa quando numerosa dall’isolazionismo all’azione collettiva e che cosa abbia spinto decine di vignaioli che fino al giorno prima si consideravano concorrenti a prendere la decisione di lavorare insieme.
Che si tratti di un’idea vincente, del resto, è testimoniato dalla continua crescita numerica delle Case vinicole che aderiscono alla cooperativa appennino romagnola: il primo assemblaggio di Giove, quello della vendemmia 2009, è stato realizzato con il vino fornito dalle prime aziende associate, che erano soltanto 12. Ma già con il Sangiovese del 2010 il Consorzio potrà disporre di 200-300 mila bottiglie e per la vendemmia del 2012 s’è posto l’obiettivo di arrivare a 1 milione. È la prima volta che il vino romagnolo di qualità raggiunge questi numeri. I 34 soci presenti al Vinitaly nelle file del Consorzio stanno intanto aumentando. Saranno tra breve 36 e probabilmente continueranno a crescere. Ad attrarli è il dinamismo della cooperativa che al Giove Superiore si appresta ad affiancare, rispettando i termini previsti dal disciplinare, anche il Giove Riserva. L’affinamento di quest’ultimo ha luogo in rovere nuovo e quindi, per ottenere un prodotto omogeneo, non può essere affidato ai singoli soci: dev’essere necessariamente praticato su scala consortile. Ma il Consorzio, che è un’autentica fucina di idee, non ha nessuna intenzione di limitarsi a questo: allo studio ha pure un Giove bianco, ricavato anch’esso da uve di varietà autoctona.
Ma che vino è, per intanto, il Giove già presentato al Vinitaly? Secondo il Consorzio, “interpreta la Romagna come la tavolozza di un pittore dove le caratteristiche dello storico vitigno esprimono, nei diversi areali dell’Appennino, peculiarità differenti”. All’assaggio, il Giove è un Sangiovese di razza, «ma ho voluto che fosse prima di tutto un vino piacevole da bere», confessa Fiore. «La filosofia della miscela viene decisa, prima di praticare concretamente l’assemblaggio, sulla base di decisioni condivise. E i criteri a cui ci siamo concordemente ispirati sono stati due: privilegiare l’eleganza anziché la potenza e puntare su una gradazione alcolica molto equilibrata. Nel mondo, infatti, i vini di qualità preferiti non esibiscono i muscoli e raramente superano i 12,5-13% vol.».
Anche il prezzo è equilibrato: all’esportazione, 4,20 euro la bottiglia franco cantina. Export manager del Consorzio è Andrea Campanacci, un socio di Faenza cui è stata affidata la responsabilità della commercializzazione all’estero. Campanacci, che ha il compito di formare una rete commerciale consortile unificata, può contare sul consenso degli importatori, che hanno giudicato affascinante l’idea e che hanno già cominciato a dare le prime soddisfazioni, a partire dagli States.

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I vigneti della Tenuta Piccolo Brunelli di Galeata (Forlì-Cesena)

 

Campanacci sta lavorando però anche a un altro originale progetto: la distribuzione attraverso una “filiera corta” che elimini, insieme agli agenti di vendita, anche i relativi costi. L’idea è quella di creare, in negozi di proprietà, invitanti centri di vendita sui cui scaffali trovino posto non solo il Giove ma anche i vini di ciascun consorziato, in modo da accrescerne l’attrattiva offrendo una vasta scelta di etichette. Questa insolita soluzione è già stata sperimentata con positivi risultati a Riga, nelle Repubbliche Baltiche, per avere una testa di ponte da cui partire per inserirsi nel promettente mercato russo. E iniziative analoghe sono previste in futuro negli Stati Uniti e in Germania, storicamente le piazze più aperte all’export enologico italiano. Ma la filiera corta può diventare anche l’arma più valida per imporsi sul mercato interno. Uno dei punti vendita progettati dal Consorzio è già in corso di allestimento in Romagna, in prossimità del casello autostradale di Imola. «È uno store», spiega Campanacci, «che non si limiterà a essere un’enoteca di qualità a costo contenuto, dove il Giove si potrà comprare a 6 euro la bottiglia e sui vini degli associati non graveranno ricarichi: sarà anche negozio di tendenza perché proporrà le specialità gastronomiche e dolciarie della regione, e sarà anche un punto di ristoro tradizionale».
Tanta, insomma, è la carne al fuoco, e quale sarà l’esito dell’impresa in cui si è avventurato l’intraprendente Consorzio appennino romagnolo nessuno è oggi in grado di prevederlo: l’avvenire, come dicevano prudentemente gli antichi, è in grembo a Giove. Ma dovrebbero essere di stimolo per tutti le due linee guida che stanno alla base del progetto: la promozione di un intero territorio, e l’indicazione di quanto ambiziosi possano essere gli obiettivi quando a porseli ci si mette insieme. Forse è perché sono idee che uniscono anziché dividere che oggi, in Italia, sembrano idee controcorrente?

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© Riproduzione riservata - 15/06/2011

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